The Gate (Il Cancello)

written by Wentworth Miller — VENERDÌ 27 LUGLIO 2018 (nota originale: the Gate)

Traduzione a cura di Lucia Salvato

Il cancello

 

Ho un pulsante sul petto.

 

Sotto la mia maglietta. Invisibile ad occhio nudo.

 

Non puoi vederlo, ma puoi premerlo. (Oh si. Può essere premuto).

 

Sembra uno di quei grandi pulsanti rossi di Staples Office Supplies, che dicono “FACILE”. (N.d.T. Staples Inc. è una nota catena di articoli da ufficio, questo è il pulsante – vedi link)easy button 

 

Non è quello che dice il mio. Il mio dice ____. E se lo premi, reagirò. (Oh si, reagirò).

 

In malo modo.

 

Come un distributore automatico. Premi un pulsante – esce una barretta di cioccolato. (FACILE).

 

Spero che ti piaccia il gusto della rabbia.

 

(E della paura, e del senso di colpa, e della vergogna, e di altre farciture croccanti e matte). (N.d.T. gioco di parole tra nutty: nocciola/matto e nougatty: da torrone/croccante).

 

Quella cosa? Che succede quando premi quel pulsante? Succede ciò che viene chiamato “causa scatenante”. Tutti i miei problemi intorno a ____, tutti i pensieri e le sensazioni che conservo nella mente e nel cuore, e anche nel mio corpo, si illumineranno come un albero di Natale. Intenso e ribelle, radicato nella mia storia, radicato nei traumi, pensieri e sensazioni che non avevano niente a che fare con te (originariamente) adesso ti includono (generosamente). Sono diretti verso di te (precisamente). Tu sarai tipo “Ehi – stavo scherzando”. Io sarò tipo “Tu adesso sei, per me, quella persona che fece Quella Cosa Quella Volta. E ti odio e ti temo di conseguenza”.

 

Questo è (certamente) sproporzionato (in genere). Inoltre non può essere fermato (sfortunatamente). Come il sudore sulla mia fronte – inarrestabile.

 

Anni fa quando facevo il lavoro con gli uomini (N.d.T. il ManKind project), mentre ero seduto in cerchio dando un’occhiata di disagio al mio casino, qualcuno ha premuto quel pulsante. Uno dei miei fratelli. Ha detto o fatto qualcosa – di cui non mi ricordo (granché) – e ho Reagito con la “R” maiuscola. (FACILE). L’ha pagata. Tutta. Ho gridato, ho urlato. Ho pianto e maledetto a più non posso. Ero come, Aspetta, Str-nzo. Non Stasera, Rompib-lle. Permettimi di farti il mazzo. E Poi Di Nuovo Per Sicurezza. *

 

E l’ha capito. Quest’uomo. L’ho guardato negli occhi e ho visto comprensione. Compassione. Ero sicuro che da quel momento in poi, questo Rombib-lle avrebbe pensato molto attentamente prima di premere di nuovo quel pulsante. †

 

Poi ho guardato dietro quell’uomo … e ho visto 7.6 miliardi di persone in fila. Che aspettavano il loro turno. Che aspettavano di premere il mio pulsante. Invisibile ad occhio nudo. Ma erano lì.

 

C-zzo.

 

Non è possibile” pensai. “Non è possibile avere la stessa f-ttuta conversazione con tutti loro. Sul perché preferirei che non premessero il mio pulsante. Sono troppi. Troppi (potenziali) premi-pulsanti. E di me ce n’è soltanto uno. Non ho il tempo, l’energia, la pazienza di affrontare questo. E anche se lo facessi “, ho pensato, “solo alcuni di loro capirebbero. Il resto no. Alcuni capiranno e ANCORA premeranno il mio pulsante. Non è possibile”, ho pensato, “rendere il mondo sicuro per me e per il mio pulsante, per evitare che venga premuto, ancora e ancora. No”, ho pensato, “Non succederà”.

 

(Inoltre? Ho più di un pulsante. Sul mio petto. Ci sono scritte cose diverse ma sono lì. I miei pulsanti. Che aspettano di essere premuti. C-zzo).

 

Mi resi conto che c’era solo una cosa da fare. Riguardo al mio pulsante. Dovevo trovare ciò a cui era collegato…e scollegarlo. (NON FACILE). In tal modo, se e quando sarebbe stato premuto, non avrei Reagito., sempre e comunque, allo stesso modo. Mi sono reso conto che il mio lavoro, la mia responsabilità verso me stesso, era di cambiare la mia Reazione verso il pulsante che viene premuto. E nessuno poteva farlo se non io.

 

Ad essere chiari, si tratta di pari priorità. (Come per la maggior parte delle cose, penso). Dico alla gente, per esempio, “Non usare quella parola quando ti riferisci a me”. E scelgo di lavorare su quella parola, di lavorare su di essa e su i miei sentimenti ad essa connessi. Così quando le persone dicono quella parola (e lo faranno), Reagirò diversamente. E forse, un giorno, non reagirò affatto.

 

In questi giorni, quando qualcuno preme il mio pulsante (succede), sento l’eco di un’eco, il fantasma di un fantasma di Reazioni precedenti. Come una canzone alla radio che ti ricorda di quella volta in cui il tuo cuore è stato spezzato, una canzone che ti faceva venir voglia di accostare l’auto. Ma ora tu annuisci e sorridi, forse hai un po’ gli occhi lucidi.

 

Quando sento le persone parlare di “spazi sicuri”, annuisco e sorrido perché capisco il desiderio di uno spazio – qualunque spazio – in cui sentirsi sicuri. Non mi vengono gli occhi lucidi però, perché non ho mai conosciuto qualcosa del genere. Non credo, infatti, che qualcosa del genere esista. Uno spazio che è “sicuro”. Non al 100%. All’interno del quale nessun pericolo, di qualunque tipo, sia presente.

 

Ci sono due motivi per questo.

 

Il primo sono io. Non sono al sicuro. Non è sicuro, lo spazio nella mia testa. La mia mente è una casa le cui pareti sono tappezzate di disegni attorcigliati e intricati che ti invitano ad essere tracciati con le dita…finche’ non li trovi senza sbocchi, le superfici appiccicose e poi affettate, seghettate… I cui assi del pavimento si polverizzano a caso, spedendoti giù urlando, nel seminterrato sul quale erano state poste illegalmente le fondamenta …

 

Rimanere al sicuro, in questa casa (degli orrori) è un obiettivo per cui lavorare ma che non viene mai raggiunto, una destinazione immaginata ma mai conquistata. Ovunque io vada, eccomi. Non al sicuro.

 

Il secondo motivo sei tu. Ovunque io vada, ci sei tu. Ci siete voi. Le persone. Se stai condividendo uno spazio con un altro essere umano sei, per definizione, non al sicuro. Secondo Me. Non importa quanto empatici e/o comprensivi essi siano, quanto amorevoli e attenti e ben intenzionati possano essere, presto o tardi scateneranno il Peggio Di Te.

 

Oh ma Wentworth”, qualcuno potrebbe pensare, “Io sono Il Più Sicuro degli Spazi Sicuri”. Mi fareste un favore? Lasciatemi il vostro nome e indirizzo nei commenti sotto. Mi piacerebbe mandarvi una maglietta con scritto PULSANTE sul davanti e PREMI-PULSANTE sul retro, così sarete più facilmente riconoscibili. Grazie mille.

 

Non c’è nulla di meno sicuro, Secondo Me, di qualcuno che non sa (o non vuole) riconoscere la propria capacità di non essere uno spazio sicuro per gli altri.

 

Non sto dicendo che gli spazi sicuri non possano esistere. Affatto. Sono un concetto, un’idea, un ideale che dovremmo impegnarci a realizzare. A creare al meglio delle nostre delle nostre abilita. Pur riconoscendo allo stesso tempo che non ci può essere nulla di simile. Non al 100%.

 

Molti di noi lo fanno già. Quando sei fuori col tuo migliore amico, per esempio, e stai attento a non far riaffiorare ____ perché’ sai che Non Andrà A Finire bene, e prendi a calci gli altri amici da sotto il tavolo non appena fanno riaffiorare ____ perché sono (idioti) e non così sensibili e consapevoli, stai mettendo in atto il voler creare degli spazi sicuri. (Se sei allo stesso tempo sprezzante verso gli studenti che preferirebbero essere avvisati prima che il professore tiri fuori ____ cosicché possano saltare quella lezione e non venire innescati, stai usando due pesi e due misure).

 

Come sempre, niente di tutto ciò è “la verità”. È la mia verità.

 

Ecco un’altra verità: gli spazi non sicuri, come quello nella mia testa, hanno lati positivi e vantaggi. Creativi, per iniziare. Se avete letto una delle mie sceneggiature, suvvia – sapete che roba del genere non viene dal nulla. Sono case metaforiche. Piene letteralmente di case (degli orrori). Ognuna un riflesso intrattenitivo di quella nella mia testa. Un paio di quelle sceneggiature sono state vendute e trasformate in film. Gli spazi non sicuri pagano l’affitto, ragazzi. (O potrebbero).

 

Sto forse dicendo che Per Creare Arte Dobbiamo Soffrire? No. (Ma può succedere).

 

Quando la gente mi chiede cosa ho in comune con “Michael Scofield”, ero solito dire: “Un senso di lealtà… La nostra considerazione per la famiglia…”. Involontariamente (e incautamente) stavo alimentando i desideri di essere identificato con un personaggio immaginario. Quello che ho detto era vero, ma una delle qualità che abbiamo maggiormente in comune (probabilmente) è che entrambi sappiamo cosa vuol dire vivere in spazi non sicuri. Se ho reso giustizia a quel personaggio, è perché ho messo nel piatto un certo grado di autenticità. E se pensate che interpretare Michael per 90 episodi non significhi andare a provocare certi spazi, casualmente e di proposito, e venir innescati, davvero, voi…non siete (probabilmente) me.

 

Come ho già detto – gli spazi non sicuri pagano l’affitto. E la mia volontà a entrare e passare del tempo in essi ha degli aspetti positivi. A livello professionale e personale. A livello personale COME CONSEGUENZA del livello professionale. A livello personale, credo di aver beneficiato enormemente dal fare un lavoro di innescamento (a livello professionale). Dall’aver premuto i miei pulsanti. Sia casualmente che di proposito. Non sto dicendo che sia stato facile. Non sto dicendo che sia stato sempre sicuro. Sicuramente ha avuto il suo prezzo. Ma è così che funziona. Secondo Me. Per me comunque. Un altro attore/scrittore potrebbe essere fatto diversamente. Ho consapevolmente (e inconsciamente) scelto e scelgo di andare negli spazi profondi, spinosi e scatenanti. Per scavare nei miei spazi non sicuri. Per dopo, condividere cosa ho trovato con gli altri. È lì che, Secondo Me, si trova l’oro. E io Ci Torno A Mio Rischio E Pericolo. Ogni volta.

 

Uno dei miei insegnanti di recitazione era solito parlare del “cancello”. Nella letteratura, nel mito, nelle fiabe, spesso si trova Fuori. L’eroe/eroina si imbatte in un cancello ai Margini Del Bosco, dall’altra parte del quale giace Il Suo Ignoto. Una volta che si decide di attraversarlo, Niente È o Può Essere Più Come Prima. (Questo è ciò che rende una storia degna di essere raccontata. E ripetuta).

 

Il mio insegnante parlava di un cancello Dentro. Dentro ognuno di noi. Dall’altra parte del quale c’è lo spazio in cui Non Osiamo Andare. Se e quando lo facciamo, ci ritroviamo disorientati. Destabilizzati. Troviamo noi stessi “non noi stessi”. È uno spazio dove Tutto Può Accadere (e accade). Uno spazio che nessuno considererebbe “sicuro”.

 

La maggior parte delle persone trascorre la propria vita cercando di evitarlo, inerpicandosi per rimanere sul lato “giusto” del cancello. Senza successo. Prima o poi, qualcosa/qualcuno li scaraventerà da quella parte. Forse ci resteranno un minuto, forse una settimana. Ma non saranno lì per loro scelta. E se ne andranno appena possibile.

 

Un attore, diceva il mio insegnante, va in quello spazio per scelta. È il nostro lavoro attraversare il cancello, acquisire familiarità con ciò che è dall’altra parte, e andare e tornare e fare rapporto. Non solo “familiarizzare” ma Piantare Una F-ttuta Bandiera. Mappare. Trincerare. Costruire un centro commerciale. Vuoi arrivare ad una certa intimità col tuo spazio non sicuro. Anche col tuo cancello. Vuoi imparare i suoi cigolii, Memorizzare le sue schegge. Cosi puoi andare avanti e indietro con (relativa) facilità.

 

Recitare (da questo punto di vista) richiede essenzialmente che tu ti inneschi da solo. E che ti muovi in quello spazio acceso e provocatorio. Mentre le telecamere riprendono. Richiede che tu sia disposto a recarti in quello spazio non sicuro – a richiesta, ripetutamente – e che provi qualcosa che, quando gli altri guarderanno, li commuoverà.

 

Questo è un lavoro che richiede coraggio. (È l’opinione del mio insegnante. E anche la mia). Anche pericoloso. “Cosa fanno le ‘star/stelle?” una volta chiese. “Bruciano”. Le fiamme/i fiaschi (N.d.T. “flameouts” sinonimo di fiamme e fiaschi, fallimenti) sono ben pubblicizzati.

 

Ma ecco la buona notizia: Recitare può richiedere di andare negli spazi non sicuri (di nuovo, dipende da che tipo di attore sei), ma ti dà anche qualcosa da fare una volta che sei lì. Un posto dove mettere il tuo casino quando, si spera (perché le telecamere stanno aspettando), il tuo casino verrà a galla. E con questo intendo la scena. L’ “azione” che stai per girare. Non mi diverto (necessariamente) a premere i miei pulsanti, ma lo faccio perché 1. è così che funziona e 2. so che quando lo faccio, grido. Urlo. Piango e impreco senza sosta. Recitare offre contenitori (relativamente) strutturati e (relativamente) sicuri in cui poter mettere i miei casini. Tanti quanti ne possono contenere. ‡

 

Una persona qualsiasi, che non è un attore, non ha questo tipo di sbocco o scena a sua disposizione. Ovviamente. Quindi se e quando viene innescata, non c’è nulla in cui poter mettere i suoi casini. Non ha niente da recitazione, nessuna sceneggiatura da seguire. Nessun senso che Questo È Necessario e/o persino Previsto. Che c’è una Ragione (Più Grande) Per Cui Sta Vivendo Questa Esperienza Adesso. Che Scavare le Sue Scomode Verità (in pubblico!) potrebbe risuonare e risuonerà molto al di là di sé stesso. Pertanto, non sorprende che farà del suo meglio per rimanere sul lato “giusto” del cancello.

 

Se sei una di queste persone, il tuo cancello avrà un potere considerevole. Su di te. Non solo ne avrai paura ma resterà un mistero per te. Quindi più spaventoso. Come l’uomo nero sotto il letto, è sempre peggio nella tua immaginazione. Nel momento in cui punterai una torcia lì sotto sarai tipo, “Oh – un pupazzo pagliaccio con braccia lunghissime e denti affilati come rasoi. Niente di che”.

 

Un altro vantaggio nel familiarizzare col mio cancello? Quando, nella vita reale, sono scaraventato dall’altra parte, sono tipicamente meno scosso di quanto ci si potrebbe aspettare. Perché so che è un cancello, non una porta che si chiude dall’interno. So che posso trovare e troverò la via d’uscita. (Alla fine). Una differenza fondamentale.

 

Sto forse dicendo che il mio spazio non sicuro è diventato sicuro? No. Niente di così ingenuo.

 

Sto dicendo che come risultato dell’intenzione e della ripetizione e dell’esplorazione, in ambienti (idealmente) supportati e di supporto, ho sviluppato un tipo di doppia coscienza. La persona qualunque o “sta bene” o “non sta bene” (e vai con le preoccupazioni). Sono abituato a stare “bene” E “non bene”. A “stare bene” MENTRE “non sto bene”. Questo è grandioso. Una grandiosa fetta di consapevolezza da possedere. Rende le esperienze provocatorie, nella vita reale, meno disorientanti.  Meno destabilizzanti. Quando qualcuno preme il mio pulsante (e capita), mi chiedo: “Stai bene?” La risposta è (di frequente), “Sono inc-zzato, addolorato, fuori di me, qualunque cosa. E sto bene”.

Di nuovo, è una capacità che ho sviluppato nel tempo.  La mia professione lo richiede. Vengo assunto per essere innescato E per ricordarmi le battute, E per ricordarmi dove si trova la cinepresa, E per fare le cose per bene, per aprire la bottiglia a QUELLA battuta, per bere a QUELLA battuta, per strizzare gli occhi a QUELLA battuta, per uscire di scena a QUELLA battuta. (Ripeti).

 

Questa doppia coscienza mi serve bene nella vita di ogni giorno. Dove, volendomi concedere oggetti di scena, posso essere un F-ttuto Carrarmato. Che attraversa terreni accidentati pur continuando a funzionare (bene). Che Risolve Casini mentre i Casini Vanno A Rotoli. Casini che fermerebbero un’altra persona nel suo percorso. A cena con quell’amico (che stuzzica), che mangiucchia qualche nodosa Crocchetta di Vita che lo lascia senza fiato e fritto, trovandomi “non bene” e pronto per tornarmene a casa, sono tipo, “Resta seduto. Non abbiamo nemmeno ordinato”.

 

È utile – l’abilita di “stare bene” e al contempo “non stare bene”. Perché sono vivo su questo pianeta. Dove non ci sono, temo, spazi sicuri. Dentro e Fuori. Per me comunque. Essere vivi significa essere non al sicuro. Questa è, nel bene e nel male, la mia verità. L’unica verità che abbia mai conosciuto.

 

Nessuno vuole vederti a tuo agio lassù”.

 

Questo è quello che direbbe il mio insegnante, sezionando in classe una scena che era piatta, che non era riuscita ad intrattenere figuriamoci a toccare, commuovere, ispirare. Intendeva dire che noi, gli attori sul palco, eravamo rimasti nella nostra zona comfort. Che eravamo andati sul sicuro. Non avevamo corso rischi. E il risultato non era niente che valesse la pena di essere guardato. “Non è quello che il pubblico vuole vedere”, ci ricordava. “Non è per questo che hanno comprato il biglietto”.

 

A volte immagino che questo sia ciò che Dio potrebbe dire, se avessi la possibilità di chiederGli i perché della vita. Perché mi sono state assegnate queste carte? Perché i casini sono così come sono? “Nessuno vuole vederti a tuo agio quaggiù”, mi ricorderebbe. “Non è per questo che ho comprato il biglietto”. ¶

 

 

 

 

* Non è quello che è successo. Mio fratello ed io eravamo impegnati in un esercizio formale, (parzialmente) sceneggiato in cui ho davvero gridato, urlato, pianto e maledetto prima di prendermi la responsabilità dei miei giudizi e proiezioni, dei miei pensieri e sentimenti verso di lui e verso ciò che lui ha detto o fatto. Mio fratello è rimasto, per tutto il tempo, sia presente per me mentre facevo il mio lavoro che totalmente incolume.

 

† Non è quello che è successo. L’ho guardato negli occhi e ho visto occhi. Il resto è stata la mia versione su ciò che ho visto.

 

 

‡ Da non confondere con una “scatola”. Un “contenitore” nel mio gruppo di uomini, è ciò che noi chiamavamo spazi (metaforici) strutturati, intenzionali e sicuri dentro ai quali avremmo guardato ai nostri casini e avremmo fatto il nostro lavoro su di essi. Una “scatola” è uno spazio (metaforico) dentro al quale noi nascondiamo, serriamo e sotterriamo i nostri casini con l’intenzione di mai guardarci o lavorarci su’. (Buona fortuna con questo).

 

¶ Non è il mio credo religioso.