Istantanea

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GIOVEDì 4 FEBBRAIO 2016 – SCRITTO DA WENTWORTH MILLER – FACEBOOK

Magari siete andati a comprare dei calzini. A farvi prescrivere dei farmaci. A prendere una torta di compleanno per un amico.

Qualunque cosa abbiate fatto, mentre vi incamminate verso la macchina, la vostra mente è altrove. State pensando alla vostra prossima commissione o a quello che tizio vi ha detto la sera precedente. A quanto vi stia bene l’abbronzatura sul viso.

Poco alla volta, notate una presenza alle vostre spalle. Corre verso di voi sempre più veloce e i suoi piedi battono sul marciapiede. SLAP SLAP SLAP. Man mano che si avvicina, diventi teso, smetti di guardarti intorno e pensi che sia solo un ragazzino che si stia facendo una corsetta tanto per fare.

Ma non è un ragazzino. E voi l’avevate capito.

“Ehi, Wentworth!”

Eccolo lì, che ti cammina accanto, ad un metro di distanza. E ti scatta una foto. CLICK CLICK CLICK.

Ti parla continuamente e cerca di coinvolgerti nelle sue infinite chiacchiere. “Come va amico? Hai dei progetti in arrivo?” CLICK CLICK CLICK.

C’è la possibilità che non sia solo. Il secondo ragazzo sarà posizionato dall’altro lato, o di fronte a te, e cammina all’indietro. Dovrai rallentare il passo per evitare di scontrarti con lui. (Presumibilmente è una cosa fatta di proposito, così che possano sfruttare al massimo il vostro tempo insieme). Il lavoro del secondo ragazzo è quello di registrare lo scambio di battute con una video camera.

Sguardo in avanti, la temperatura del corpo sale, ti ricordi che hai parcheggiato l’auto in fondo alla strada. E ti maledici. CLICK CLICK CLICK.

All’improvviso, devi pensare ad un sacco di cose. Come, ad esempio, a non inciampare. A non far cadere le buste. A non graffiarti il naso in un modo che in foto non sembrerà che tu ti stia pulendo il naso.

Le persone vi fissano mentre camminate e monopolizzate il marciapiede.
CLICK CLICK CLICK.

Se da subito scegliete di tacere, di non rilasciare alcuna intervista improvvisata (com’è vostro diritto), la conversazione potrebbe spostarsi sul personale. Molto personale, forse. Toccare argomenti che evitate con le persone che amate/con i vostri cari. Tali argomenti — appetitosi, ma che ti fanno arrabbiare — verranno ventilati con un sorriso. Perché loro sanno che non c’è nulla che tu possa fare. CLICK CLICK CLICK.

Quel pezzo di filmato in cui vieni stuzzicato/deriso non verrà rilasciato. Ovviamente. Quello che rilasciano sono le tue risposte. Le imprecazioni che brontoli. Il rimbecco mal consigliato. Se sono fortunati, alcuni odiano le parolacce. Se sono molto fortunati, tu tiri un pugno. (Se l’azione viene ripresa, guadagnano più soldi. Naturalmente). CLICK CLICK CLICK.

Di tanto in tanto, se non dialoghi con loro, si offriranno di squagliarsela. “Dillo, amico, e ti lasciamo in pace”. Addirittura, potranno sembrarti comprensivi mentre lo fanno. Davvero generoso offrirti qualcosa (la tua privacy, il tuo spazio personale, il diritto di essere lasciati in pace), che 60 secondi prima era già tua.

Astuto manovrarti allo scopo di metterti nella posizione di chiedere ad un estraneo il permesso di continuare a vivere la tua giornata. CLICK CLICK CLICK.

Almeno, sei arrivato alla macchina. Ma di nuovo devi pensare ad un sacco di cose, oltre al sudore che ti scende sulla pelle, il ronzio in testa, la tua mano che trema. Come quando tiri fuori le chiavi dell’auto. Come quando apri lo sportello. Come quando entri in macchina tentando di non urtarti la testa (se lo fotografano, vale soldi!). Come quando ti allacci le cinture. Come quando metti in moto. Come quando esci dal parcheggio cercando di non investire qualcosa. O qualcuno. Come se lo volessi. Cosa che loro sanno perfettamente. Ma loro, naturalmente, continuano a sorridere. CLICK CLICK CLICK.

Poi sei nel traffico e controlli dallo specchietto retrovisore se sia tutto finito o appena iniziato. Guidi. Controlli lo specchietto. Quasi ti scontri con le altre auto perché non sei più concentrato. Fai diversi respiri profondi, ti prendi 20 minuti prima di tornare a casa, rifai il giro dell’isolato diverse volte per essere sicuro che nessuno ti segua. Non vuoi che scoprano dove vivi. (Ultim’ora: Lo sanno già).

Anni fa, ho letto un articolo sulle agenzie che operano al di fuori di Los Angeles, che forniscono il mercato internazionale con foto/filmati in cambio di somme straordinarie. Stando a quel che diceva l’articolo, un numero sorprendente (?) di paparazzi sono degli ex detenuti, assunti non appena escono di prigione. Queste agenzie, suggeriva l’articolo, lo fanno per due ragioni. La prima è che, così facendo, esse hanno diritto ad un’agevolazione fiscale. La seconda è che alcuni di questi uomini, nel limite del possibile, faranno di tutto per farti una foto. Per avere quel qualcosa in più.

(E’ vero questo? Non lo so. Sto solo ripetendo quello che ho letto).

Quello che so è che ero seduto in macchina, fermo al semaforo rosso — e senza che se ne accorgessero — ho notato che un gruppo di uomini, con una fotocamera, inseguiva una donna per le vie di Los Angeles. Se quella donna avesse scelto un altro mestiere, la polizia sarebbe dovuta intervenire. Invece, una donna di successo, e che ha il controllo, era un bersaglio, le cui immagini sono state distribuite per nostro diletto, mentre denunciamo le molestie quotidiane sulle donne, sui marciapiedi delle città. Benvenuti ad Hollywood.

Quando le celebrità provano a descrivere la persequzione dei paparazzi, utilizzano un linguaggio forte, poi vengono ripresi per aver utilizzato le parole sbagliate. Io descriverei la situazione come un’aggressione psicologica. Una violenza psichica.

Qualcuno che tu non conosci ha deciso di prendere qualcosa di tuo, contro la tua volontà, ed ora sei cambiato. Secondo la mia esperienza, quel cambiamento può durare un bel po’. Un tempo, mi ci voleva un po’ prima che io mi calmassi — prima che mi sentissi libero — dopo una discussione con i paparazzi. Una volta sono stato pedinato per 8 ore. Non dormii quella notte. Né la notte dopo.

Ma gli effetti collaterali possono essere peggiori.

Magari, eri a cena con un amico. Paghi il conto, esci dal ristorante e trovi degli estranei che ti aspettano con la fotocamera. CLICK CLICK CLICK. Il tuo amico non è un attore, non è nell’industria. Non è preparato ai flash, alle voci che ti chiamano dall’altro lato della strada. CLICK CLICK CLICK. Se ci sei riuscito, hai salutato il tuo amico con un abbraccio nel ristorante, perché, una volta fuori, non avrai l’opportunità di farlo. CLICK CLICK CLICK. Vi separate e vi dirigete verso le vostre auto. Una bella serata è finita in maniera tesa, ostile…

Ma non è ancora la fine. Quelle foto non possono essere postate online e basta. Devono anche scriverci una storia che le accompagni. Quindi, ne inventano una. Possibilmente, di sana pianta. Qualunque cosa garantisca il maggior successo. Per dare il giusto peso, verranno aggiunte delle citazioni, creditando “fonti” anonime dalla scena (anch’esse inventate di sana pianta).

Dal momento che il tuo amico non può rimanere nel mistero (e sto solo indovinando che funzioni così), verrà seguito fino alla sua auto, verrà annotato il suo numero di targa, un contatto ubriaco verrà contattato (alla stazione di polizia? Alla motorizzazione?) e la sua identità verrà rivelata. Ora, abbiamo un nome da dare al volto.

Nel giro di una notte, di riflesso, il tuo amico è una celebrità, cibo per i blogger e per coloro che commentano dicendo cose brutte sul suo aspetto. Tutte cose che, se non lo avvertite prima, imprudentemente, il vostro amico leggerà. La stessa cosa vale per gli amici degli amici e la vostra famiglia. Quando queste persone piangono, è naturale sentirsi responsabili.

Quando le persone guarderanno quelle foto online, o mentre sono in fila alla cassa di un supermercato, immagino che l’energia dietro — un ‘energia rapace, parassitaria — si sia dissipata al punto da far sembrare le foto innocue. Addirittura utili. Una possibilità di aggiornarsi con un vecchio amico. “Oh guarda – la tale ha ritirato la posta. Buon per lei. Una cosa in meno da fare sulla lista”.

Ho sentito dire che ci sono delle celebrità che amano questo tipo di attenzioni, che persino si accordano, allertando i loro fotografi preferiti ed aggiornandoli sull’itinerario della giornata. “Sarò in quel tal posto all’una. Ci vediamo”.

(Perché lo fanno? Non saprei. Dovreste chiedere a loro).

Per quel che mi riguarda, non ho mai visto alcun vantaggio nell’andare alla ricerca dei paparazzi. In giro, ci sono dozzine di mie foto mentre esco dallo stesso Starbucks. L’unica cosa che cambia sono i vestiti che indosso e il numero di tazze che ho in mano. Per quanto ne so, nessuna di queste foto mi ha aiutato a trovare un lavoro o mi ha fatto venire la pelle d’oca. Né, degno di nota, ho mai ricevuto un centesimo dalla loro vendita.

Quanto all’utilizzare i paparazzi per generare/far girare un certo tipo di racconto personale — per esempio, quello di essere etero quando ero “etero” — il fatto è che avrei preferito non avere l’attenzione addosso. L’incontro con un fotografo, soprattutto se ero con qualcuno di cui mi importava (a livello romantico o altro) sarebbe stata l’ultima cosa che avrei desiderato.

Uno potrebbe dire che le celebrità che citano i paparazzi in giudizio, lo fanno per darsi un tono e nel dire questo invalidano il nostro diritto di lamentarci. “Lo hai chiesto tu/Sapevi a cosa andavi incontro” sembrano essere le risposte di rito semmai dovessi azzardarti di lamentarti in pubblico.

Sottintendere che “tu te lo meriti” è ciò che sottintende qualunque altra risposta fino a “tu te lo meriti”. E’ mancanza di comprensione. Una parte essenziale della controfase di glorificazione/disumanizzazione, invidia/disprezzo, che alimenta la cultura delle celebrità ed il nostro interesse in essa. Un interesse saggiamente manipolato e sfruttato da molti, troppi media che dipendono da esso.

(O forse no. Potrei sbagliarmi. E’ solo una teoria).

Mi è stato chiesto: “Qual è la differenza?”. “Qual è la differenza tra una foto che ti scattano fuori Starbucks ed una foto che ti scattano sul red carpet?”. Dichiarando l’ovvio, la seconda è volontaria. E’ parte del lavoro. Ti vesti, posi per le foto, promuovi un progetto. Quando qualcuno mi scatta una foto fuori da Starbucks, non c’è alcun progetto da promuovere.

Solo una fame che viene soddisfatta.

Quando osserviamo le foto dei paparazzi alle celebrità (o peggio, ai loro figli), oliamo un meccanismo rotante in cui vengono vendute delle cose che appartengono a degli uomini, a delle donne e a delle famiglie, che non hanno dato il loro consenso. Se scegliamo di prendere coscienza della cosa, dipende da noi. La stessa cosa vale se scegliamo di credere che le persone stalkerizzate o a cui si scattano foto senza il loro consenso, per il nostro diletto, siano, in realtà, delle “persone” che meritano maggiore privacy e rispetto.

La domanda che vi pongo è: se siete delle persone abituate a guardare le foto che i paparazzi scattano alle celebrità, e la cosa vi piace, e siete consapevoli di come quelle foto vengono prodotte, a quale prezzo, e vi reputate dei “fan”, di cos’è che siete esattamente dei fan?

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