Oxford Union – Università di Oxford (UK, 9 ottobre 2016) 

WENTWORTH MILLER – Oxford Union Sunday 9 October 2016 – Q&A

Traduzioni a cura di Chiara Ferrazza e Heather Purple



Intervistatore: Prendi dell’acqua prima

Wentworth Miller: mhm

I: Wentworth ed io siamo entrambi nervosi per questa cosa.

WM: Si…

Intervistatore: E’ la prima volta per entrambi.

WM: Siamo sulla stessa barca…

I: Tu hai detto di essere nato non lontano da qui, a Chipping Norton. Tuo padre  ricevette la Rhodes Scholarship (borsa di studio post diploma per frequentare l’università di Oxford), senti una connessione tra UK e Oxford? Come ti senti per questo ritorno?

WM: La vedo la connessione. Intanto grazie per avermi ospitato qui oggi pomeriggio, è un vero piacere essere qui. Sembra quasi un ritorno a casa il che è strano perché non ho ricordi di Oxford. La mia famiglia si è trasferita negli USA quando avevo un anno, ma sento di avere delle radici qui.

I: Tornando alla tua famiglia, tuo padre ebbe la borsa di studio Rhodes e su Wikipedia c’è scritto quanti antenati di varie nazionalità hai. Com’è stato crescere in questo modo?

WM: Mmm, punti dritto alla razza (sospira e poi ride). Sono onorato di avere una varietà di antenati a cui fare riferimento quando ne ho bisogno. Ho antenati che erano schiavi nell’America del Sud, minatori in piccole città della Pennsylvania e ci sono stati periodi della mia vita in cui ho avuto bisogno di accedere alle riserve di coraggio e resistenza e pensavo a ciò che ha affrontato la mia famiglia, ci sono state molte lotte e molte vittorie, tutto quello che hanno superato. Il semplice fatto che io esista grazie alla loro perseveranza, mi dà forza.

I: e questo come influisce sulla tua carriera, ti è servito da base per la transizione dalla tua vita personale a quella professionale immagino…

WM: Ah. (Pensa). E’ una domanda complicata, con molte parti commoventi. Credo ci sia un parallelo tra la persona che sono,la strada che ho percorso e i ruoli che ho interpretato. Per esempio Michael Scofield in Prison Break è un artista della fuga, un sopravvissuto, per questo lui piace. E’ uno che è stato in situazioni estreme e credo sia un’ispirazione vedere come ogni giorno lui trasforma la paglia in oro, è qualcosa su cui ognuno può ritrovarsi, me compreso.

I: Forse puoi dirci qualcosa sul tuo processo creativo e il processo dell’artista con cui affronti ogni ruolo?

WM: E’ un po’un miscuglio. Ho studiato in molte scuole. Credo che alla fine un attore debba trovare ciò che è meglio per lui. Io cerco una connessione personale col personaggio, come posso rapportarmi con le circostanze in cui si trova. Questo riguarda anche l’archetipo, raccontare le storie è una tradizione secolare, c’è l’archetipo del guerriero, del mago, del re, dell’amante. Cerco di capire quali di questi personaggi mi si addice di più e cerco qualcosa che mi colleghi a lui in maniera personale, tipo una canzone, una foto della mia infanzia, un’opera d’arte.

I: Tu hai una laurea in Letteratura Inglese a Princeton, pensi che sia stata una buona base per la tua carriera?

WM: Penso di si, penso che avendo letto molti libri e scritto molto su di essi quando ero al college, analizzare un testo, investigare sui personaggi, gli argomenti e i dialoghi , tutto questo viene messo nell’opera quando sono seduto col copione in mano e cerco di familiarizzare con il ruolo che mi hanno affidato.

I: Dato che Oxford è piena di aspiranti attori e attrici qual è il miglior consiglio che ti è stato dato?

WM: Credo che tu voglia entrare nella parte ma non fare quello che il pubblico si aspetta, ma interpretare la miglior versione del personaggio. Il miglior consiglio che mi è stato dato tanto tempo fa è quello di non leggere le classificazioni, ovvero le descrizioni di come dovrebbe essere l’attore che cercano per un determinato ruolo. Spesso loro scrivono che stanno cercando un giovane Tom Hanks o un giovane John Malkovich, perciò se sei un giovane Tom la parte sarà sicuramente tua, se sei un giovane John ma vai al provino cercando di fare la miglior versione di Tom, di sicuro non ce la farai. Quello che tu vuoi fare è andare al provino ed impersonare un bravissimo John e anche se non otterrai la parte, perché loro cercavano un giovane Tom,  ti ricorderanno per come hai interpretato John e ti terranno in considerazione per una prossima volta.

I: Immagino che questo è quello che ti è accaduto per il tuo ruolo in “The Human Stain” dove tu eri, se non sbaglio, un giovane Anthony Hopkins, per certi versi. Com’è stato?

WM: In realtà quello che è stato gratificante, riguardo quell’esperienza è che non ho dovuto preoccuparmi particolarmente di essere un giovane Anthony Hopkins, perché abbiamo girato prima le mie scene, che erano ambientate negli anni ’50, poi lui arrivava e le guardava, per cui in un certo senso è lui che ha preso me come modello che è lusinghiero a dir poco.

I: Credo che questo sia ciò che ti guida in alcuni degli altri ruoli prima di Prison Break. Com’è stato cercare di entrare nel mondo della recitazione ad Hollywood?

WM: Di nuovo?

I: Scusa. Allora puoi dirci un po’del tuo primo ruolo prima di Prison Break, come sei riuscito a diventare l’attore che sei oggi.

WM: Credo di essere andato per tentativi, volevo entrare in un buco rotondo quando invece ero un piolo quadrato. Andavo alle audizioni e mi comportavo come se fossero colloqui di lavoro, specie dopo il college, tipo “hey ciao, sono qui per il lavoro, memorizzerò tutte le battute, sarò puntuale”, anche se non è necessariamente quello che volevano sentire. Loro vogliono vedere te, che quello che hai da offrire è interessante, unico e provocatorio. Mi ci è voluto molto tempo per capire che fare le audizioni significa entrare in una stanza piena di estranei, svelare tutte le tue cose più private, poi quando hai finito, ti rivesti e te ne vai. Questo è il lavoro, la definizione lavorativa di professionale. Se qualcuno me lo avesse spiegato dopo essermi laureato avrei smesso di recitare, sarebbe stato troppo spaventoso per me. L’essere passato da guest-star a regular è dipeso tutto da una maggior fiducia in me stesso, dal presentarmi com’ero realmente.

I: In quegli anni pensi di aver avuto il controllo sui tuoi personaggi, di aver fatto parte del processo creativo o ti sei sentito come se ti fosse stato semplicemente messo addosso?

WM: Come ho detto, stavo cercando di adattarmi anche se non c’entravo niente, perché Hollywood non scriveva ruoli per attori apertamente gay di razza mista. Nemmeno adesso lo fanno, perciò prendo quello che trovo e cerco di farmelo andar bene. Una svolta fondamentale per me riguardo ai casting fu quando qualcuno mi disse che quando un attore va alle audizioni si sente come un ospite ad una cena che ha paura di sporcare il tappeto, invece tu devi essere il padrone di casa e offrire te stesso. Perciò quando ho avuto più fiducia e una maggiore consapevolezza di ciò che avevo da offrire sia come uomo che come artista, al di là del ruolo, al di là di ciò che stessero cercando, lo facevo mio.

I: Quello che mi ha colpito di te è la grande fiducia in te stesso che hai ora, di come grazie a questo un attore di Hollywood apertamente gay possa parlare di quello che ha dovuto affrontare. Puoi dirci qual è stato il percorso che ti ha portato ad essere così oggi?

WM: Intanto, sfatiamo questo mito della fiducia, in questo momento sono molto nervoso (ride). Io sono sia fiducioso che terrorizzato, penso a me stesso come ad un guerriero ma sono vulnerabile (tira un sospiro di sollievo come si scrollasse ansia di dosso). E’ una cosa buona per me, per tenere sotto controllo il mio stato mentale, per esempio ora so di avere un po’di nervosismo, di ansia, desiderio di piacere, un po’di pressione nel sembrare perfetto e di parlare come si conviene, ma tutto questo è giusto perché mi ricorda in ogni momento che niente di tutto questo è necessario. Sono libero di mostrarmi per come sono, con i miei difetti e tutto il resto. Se quello che dico non risuona per nessuno, va bene, se risuona per una persona, è splendido. E’ un continuo equilibrio tra essere aperti e stare in guardia, fiducia e vulnerabilità. Non è facile, ma riafferma il mio senso di cosa sia per me l’equilibrio. Sentivo questa parola e pensavo a qualcosa di tipo zen, un senso di arrendevolezza, ora sono equilibrato, ma è come essere un funambolo, dobbiamo fare dei piccoli aggiustamenti per evitare di cadere. Questa per me è la definizione di equilibrio che mi permette di parlare della mia verità. Poter parlare di se stessi è una bella cosa ma anche terrificante, è gratificante ma allo stesso tempo mi fa pentire di essere qui oggi.

I: Oh no, no!

WM: E’ per tutto quello che ho detto prima.

I: Credo che la gente trovi rassicurante che tu possa parlare in modo così naturale e onesto, nonostante sia terrorizzato e possa inciampare nelle parole, si crea un dialogo positivo.

WM: Si, e ci siamo dentro insieme, come in trincea. Ripenso a quando ero al college, all’epoca l’idea di parlare in una stanza piena di estranei di cose come la depressione o il suicidio mi terrorizzava, ora invece che ho il desiderio di parlarne, faccio meno fatica degli altri. Un conto è essere depressi, dover fare sempre i conti con l’ansia, un’altro è dover costantemente fingere che tutto vada bene e ora non devo più farlo. Ora posso mettere quell’energia che usavo per nascondermi da qualche altra parte che sia più importante per me a livello personale e creativo.

I: Credo che sia una cosa molto importante perché, non so se lo sai, ma qui ad Oxford, si stima che il 50% degli studenti, ad un certo punto del loro percorso di laurea, avrà problemi mentali. Per questo è una buona cosa che si possa avere un dialogo e aiutare le persone, è rassicurante potergli dire tutto questo. Come diresti alle persone che si può arrivare al punto in cui sei ora, che sei felice con te stesso, qual è stato il tuo percorso?

WM: Tornando al fatto di trasformare la paglia in oro, che io considero un processo alchemico, se prendiamo qualcosa di oscuro, che ci rende nervosi, le cose di cui ci vergogniamo segretamente, che non vogliamo che gli altri sappiano, e le facciamo diventare un punto di forza, la nostra storia sarà utile per qualcuno e meritevole di essere raccontata. Avevo un’insegnante di recitazione che teneva dei discorsi prima di ogni lezione, un giorno ci chiese chi volesse diventare una star, ovviamente tutti alzammo la mano, eravamo lì per questo un giovedì mattina alle 10. Lui rispose che avremmo dovuto tornare a casa e fare una lista delle cose di cui ci vergognavamo, che non avremmo mai voluto che qualcuno scoprisse, poi fare una seconda lista in cui scrivere le cose che ci avrebbero resi delle star e metterle nella prima lista perché erano le cose che la gente voleva vedere al cinema, in tv o a teatro. Vogliamo vedere persone oneste sull’esperienza umana e non era una cosa naturale. Ricordo che il college era un ambiente molto competitivo, mi ricordavano tutti che ora ero il migliore, c’era poco spazio per gli errori, ed ogni segno di vulnerabilità veniva percepito come una debolezza. Per questo motivo, quando ero in crisi, e lo sono stato per molti anni, non chiedevo aiuto a nessuno, ed è una cosa che sto cercando di scacciare dalla mia vita, gentilmente, pacificamente.

I: Credo che questo riguardi soprattutto gli studenti che sono qui oggi, perciò vediamo se hanno qualche domanda.

WM: Grande…

Domanda di uno studente: Grazie mille, volevo chiederti , cos’è per te la felicità?

WM: Felicità. E’ una bella domanda, specialmente negli Stati Uniti sembra si di grande importanza questa cosa. Tutti tendono a voler raggiungere la felicità. Per me non è un obiettivo molto realistico, punto alla contentezza, se poi riesco ad essere felice, ben venga. Recentemente ho iniziato a prestare attenzione alle cose che mi rendono felice, perché la felicità va e viene molto velocemente. Dov’ero, cosa stavo ascoltando, con chi ero, cosa stavo mangiando? Sono cose necessarie da tenere a mente quando stai lottando, quando non sei in un posto felice puoi ricreare questi momenti usando ciò che trovi nella tua cintura degli attrezzi.

I: Straordinario! Quancun’altro ha una domanda?

Studentessa: Mi è piaciuto molto leggere i copioni di Stoker e Uncle Charlie che hai messo a disposizione recentemente…

WM: Thank you!

Studentessa (continua):… mi chiedevo se hai intenzione di proseguire per quella strada oppure concentrarti sulla recitazione?

WM: Non so cosa mi riservi il futuro a questo punto, sia come scrittore che come attore. All’inizio la recitazione mi aiutava ad esprimere come mi sentivo, a buttare fuori tutta la rabbia e il dolore. Ora succede lo stesso con i miei scritti, soprattutto quelli per la tv che sono autobiografici fino ad un certo punto, ma sono coperti da uno strato di finzione. Su facebook invece posto cose più personali. Parlando di ciò che è più reale per me, ce ne sarà di più per me in futuro. Non escludo di scrivere un altro copione, o un altro ruolo oltre a Prison Break, voglio trovare un altro modo di esprimermi e di raccontare la mia storia, qualunque cosa sia.

Studentessa: Stavi parlando della tua depressione, so che l’hai combattuta tutta la vita e non sei più tanto giovane, non prenderla nel modo sbagliato. (Went ride) Come sei riuscito a superare tutto questo e ad essere qui oggi?

WM: Si, sono ancora qui, e non lo dico per scherzo, è un’affermazione. La depressione sfortunatamente non è uguale per tutti, fortunatamente o sfortunatamente non voglio darle un valore. E’ diverso per tutti, può essere chimica, biologica o ambientale, perciò quello che funziona per uno non necessariamente funziona per altri. Esprimere se stessi è una cosa enorme, avere un contenitore in cui mettere tutto quello che bolle dentro di te, la rabbia, la paura,la colpa o la vergogna. Ci sono molti modi per uscirne, può essere attraverso un dipinto, su carta, o fare una corsa intorno alla scuola, tutto serve per mandarla via appena si presenta. Un’altra cosa è prendersi cura di se stessi, fare cose che mi fanno vibrare alla giusta frequenza, che può essere bruciare della salvia, cenare fuori con un amico, un bagno coi sali di Epsom. Piccole cose per me stesso che posso permettermi, che mi nutrono. Spesso ci dimentichiamo di prenderci cura di noi stessi, ci concentriamo su cose esterne ma abbiamo molto qui dentro (indica la testa) che richiede attenzione. L’altra cosa che faccio è parlare a me stesso in modo amorevole e confortante. Sono stato un buon amico ad un certo punto della mia vita, perciò se un amico è in difficoltà so come creare uno spazio di ascolto , oppure basta anche un semplice abbraccio o tenergli la mano o rimanere in silenzio.  So come fare questo per un amico. Se sono io invece a mandare tutto in malora, la mia reazione contro me stesso sarebbe “sei uno stupido idiota”, oppure “ma come hai potuto?”, o “che ti aspettavi?”. Se parlassi ai miei amici come parlo con me stesso non avrei amici, perciò ho cominciato a prestare attenzione a come parlavo a me stesso a voce alta e nella mia testa, e nella tua mente la conversazione è molto più complicata, ma puoi controllare le parole che escono dalla tua bocca. Perciò, se parli con te stesso ad alta voce, e io lo faccio, assicurati che siano parole di supporto, inizia ad essere il tuo migliore amico.

Studente con gli occhiali: Hai accennato alle tue esperienze nel parlare con le altre persone e, dal momento che la questione della salute mentale è un problema piuttosto sentito qui a Oxford e non solo per quanto riguarda il prendersi cura di sé stessi ma anche di come prendersi cura degli altri, mi chiedevo se tu avessi un’opinione, in base alle tue esperienze, su qual è il modo migliore per aiutare una persona depressa o che soffre d’ansia.

 

WM: È un’ottima domanda, una con cui molte persone si trovano a confrontarsi. Ci sono molte persone che conoscono qualcuno in difficoltà ma non sanno cosa dire, magari temono di dire la cosa sbagliata. Il mio consiglio sarebbe quello di partire da lì. Avvicinare quella persona e dirle “Non so cosa dire e ho paura di dire la cosa sbagliata ma vedo che c’è qualcosa che non va e voglio che tu sappia che io sono qui per te, dimmi solo in che modo posso aiutarti”. In questo modo farete capire di non sapere cosa dire o fare ma anche di esservi accorti di loro e loro si sentiranno ascoltati e considerati. E questa è una cosa enorme per qualcuno in difficoltà. Spesso non farete niente per paura, augurandovi che quella persona si rimetta in sesto da sola, del tipo “Spero che rimetterai insieme i pezzi e che tornerai da noi quando starai bene”, ma è pur sempre un modo per iniziare un dialogo. Ed è importante perché, una volta che avrete iniziato a parlare con quella persona, sentirà di poter contare sul vostro aiuto e si sentirà in grado di gestire la conversazione perché gli avrete detto “dimmi tu quale aiuto posso darti”. E questo la farà sentire in qualche modo padrona della situazione, la farà sentire capace di prendere delle decisioni. Qualcosa di assolutamente nuovo per chi soffre di ansia, di depressione. Poi potreste iniziare ad informarvi su quali siano le risorse disponibili, se lo Student Health Center o magari l’amministrazione hanno messo dei servizi a disposizione. Se c’è un gruppo di supporto per il counseling individuale e, se non c’è, come fare per averlo.

 

Studente con la t-shirt arancione: Prima di tutto grazie per essere venuto qui stasera e la mia domanda è questa. Come attore, lungo la tua carriera, hai impersonato tanti ruoli differenti e dal momento che hai detto che c’è sempre qualcosa di vero nei ruoli che reciti, che a un certo punto devi fare tue le emozioni dei personaggi che interpreti e che, da come ho capito, è facile confondere ciò che è reale con ciò che è il tuo personaggio sullo schermo, come fai a mantenere questa distinzione nella vita reale?

 

WM: Gran bella domanda, piuttosto complessa. Come distinguo ciò che reale da ciò che non lo è? A volte non è facile perché è ciò per cui vengo pagato, rendere vero qualcosa che è una bugia. Mentire bene o mentire il più onestamente possibile è il mio mestiere come attore, da un certo punto di vista. Quando giro una scena in Prison Break e sono Michael Scofield e devo essere infuriato con qualcuno o essere addolorato o far trasparire paura, devo attingere dalle mie esperienze personali e per un numero imprecisato di ciak perché, sapete, la macchina da presa viene posizionata in punti diversi per filmarti da diverse angolazioni e per filmare i tuoi partner di scena da diverse angolazioni. Perciò, se nella scena ci sono io che vengo soffocato, verrò soffocato 30 o 40 volte e a un certo punto il mio corpo comincerà a credere che davvero mi stanno soffocando perché devo convincere del realismo di quella scena.

Non ricordo nessuno che, durante il corso di recitazione, mi abbia mai spiegato cosa accade quando hai finito di girare la scena e sei libero per il resto della giornata ma quella… quella cosa è ancora dentro di te, il fatto che tu abbia passato le ultime tre ore ad essere soffocato. Tutto questo si lega all’importanza che ha per me il prendersi cura di sé stessi, così quando finisco di girare una scena particolarmente intensa, quando il mio corpo crede che quello che ho appena girato sia la verità devo in qualche modo ritrovare l’equilibrio: esco per una passeggiata, incontro un amico, guardo un film che so mi farà ridere, mi dedico a cose che mi faranno ritornare in me stesso, che mi calmeranno e che, in sostanza, mi faranno sentire al sicuro.

 

Studente con la giacca nera: Fondamentalmente sono nervoso, come te e ho due domande. La prima: riguardo alla domanda dello studente sulla felicità, secondo te il denaro dà la felicità? E la seconda domanda: sono davvero curioso di sapere se, nelle elezioni americane, sei per Donald Trump o Hillary Clinton?

 

WM: Hmmm (prendendo un profondo respiro). Il denaro non dà la felicità, questa è la mia risposta alla tua domanda. Il denaro può aiutare, con il denaro puoi prenderti cura di molte cose ma può donarti l’autostima? No. Può farti sentire appagato con te stesso? No. Di fatto, è facile provare un sentimento di disappunto, una sensazione di tradimento perché sono cresciuto, come tutti, affascinato dall’idea di una Hollywood piena di glamour, con tutta quella fama e quella fortuna e tutti i suoi party pensando che, una volta avutone un assaggio, tutto sarebbe andato bene. E poi ho scoperto che non andava affatto bene, in realtà. Anzi, ha perfino accentuato tutto ciò che non andava bene.

Per quanto riguarda le elezioni c’è una sola domanda che mi faccio, che mi sono fatto: lei è adatta a questo compito? E la risposta è sì.

 

I: Tornando alla domanda precedente, quando dici che il denaro non dà la felicità come possono, invece, le piccole cose. Mi ha ricordato di quando hai detto che fare un bel bagno e cose così possono e credo che sia una bella cosa perché ti mette al nostro stesso livello, perché credo che sia facile per le persone pensare che tanto tu hai soldi e puoi fare tutti i trattamenti che vuoi e avere tutte le cose di cui hai bisogno. Penso che le persone possano apprezzare il fatto che quelle piccole cose a cui non pensiamo durante le nostre giornate frenetiche possano farci prendere fiato.È stato semplice per te riuscire a prenderti del tempo? Hai dovuto forzarti a prenderti cura di te stesso?

 

WM: Ho dovuto imparare a farlo perché non faceva parte della mia giornata tipo. La mia giornata tipo consisteva nel portare a termine delle cose, quello che c’era da fare. Al college era il quiz per cui studiare, il test da fare, l’esame da sostenere, la lezione da seguire, l’incontro a cui andare, la festa a cui partecipare. Ero costantemente concentrato su cose che non erano parte di me. Adesso ricordo a me stesso di fare un bel respiro e ricordo a me stesso che ciò di cui ho bisogno è a portata di mano.

Una giornata alle terme mi stresserebbe, non la troverai un’esperienza rilassante, preferirei di gran lunga sedermi su una panchina per cinque minuti – ho fatto un giro per il campus e ho visto delle panchine. Queste cose sono alla vostra portata, potrebbero non funzionare per voi allo stesso modo in cui funzionano per me, ma sedersi, prendere un bel respiro, prendersi un momento, anche se solo per cinque minuti per me fa un enorme differenza.

 

Donna con giacca rossa: Ciao, piacere di conoscerti, Went. Il Mankind Project, come ha influito su di te per farti arrivare dove sei oggi?

 

WM: Il Mankind Project. È un’organizzazione di cui faccio parte negli States, è stata fondata circa 30 anni fa e si tratta di uomini che aiutano altri uomini a fare quello che loro chiamano “un lavoro da uomini”. Per me questo ha significato – cosa che all’inizio è stata un’esperienza nuova e terrificante – sedersi in cerchio con altri uomini e condividere le mie esperienze onestamente. Per due anni ogni lunedì sera dalle sette alle dieci mi sarei incontrato con sei o dieci persone e avremmo parlato della nostra giornata, delle nostre vite, delle cose belle che ci accadevano, di quelle brutte, di quelle orribili e di quelle veramente orribili. Era un luogo completamente sicuro dove qualunque cosa avessi condiviso sarebbe rimasta.

Le cose che ha significato per me sono state tante, difficile riassumerle in breve. Una di queste è stata sentirsi come ad un percorso di iniziazione nel momento in cui entravi nel Mankind Project e ti veniva dato, in un certo senso, il permesso di sederti con questi uomini e condividere. Qualcosa che non avevo mai provato prima nella mia vita, una sorta di iniziazione che non avevo mai visto prima. Almeno non nella società occidentale. Forse ad un Bar Mitzvah accade qualcosa di simile ma personalmente non ho mai, mai vissuto un momento in cui, a 12 o 13 anni, l’anziano del villaggio sia venuto da me dicendomi “oggi sei un uomo, vieni e siedi con gli anziani e ascolta la saggezza degli antichi. Ti mostreremo come essere un uomo, come cammina un uomo, come parla un uomo”. Non ho mai ricevuto questo tipo di educazione così, come tanti altri uomini, ho dovuto fare da solo e il risultato è stato un miscuglio di contraddizioni. Il risultato sono stato io che a 40 anni mi sentivo ancora un ragazzino che cercava di uscire da quella zona grigia. Perciò sedermi con questi uomini, alcuni dei quali ottantenni, dalle esperienze più diverse, e ascoltare le loro storie, sentirmi in contatto con quell’energia, sentirsi appoggiati è stato rivoluzionario per me. È stato il primo posto in cui ho fatto outing pubblicamente. Avevo già fatto outing anni prima con la mia famiglia e i miei amici ma loro sono stati la prima comunità a cui mi sono dichiarato gay e la reazione fu “Ottimo. Prenditi una sedia”. È stato fantastico che non ne abbiano fatto un affare di stato, che non vi abbiano dato quel peso enorme che io stesso gli avevo attribuito per anni.

 

I: E anche essere completamente onesto con te stesso in un modo, immagino, che non ti facesse sentire sotto pressione.

 

WM: Trovare un luogo dove senti di avere la possibilità di essere autentico è qualcosa di prezioso e non per forza lo troviamo con la famiglia o gli amici. C’è una ragione se gli uomini del Mankind Project si chiamano tra di loro “fratelli” e non “amici”. Perché un fratello ti dirà cose che un amico non ti dirà mai.

 

Studente della prima fila: Prima hai parlato di come cose che non racconteresti a nessuno ti avrebbero reso famoso mettendole in quello che fai. La mia domanda è come gestisci le critiche, le critiche aspre, perfino l’odio del pubblico su cose che non hai voluto condividere?

 

WM: Mi odiano? (Ride) Ho capito cosa vuoi dire. Beh, recitare mi ha dato un contenitore sicuro e ben strutturato in cui mettere tutte le cose di cui abbiamo parlato cosicché quando interpreto Michael Scofield, ad esempio, che deve ottenere ciò che vuole da qualcuno, che siano lacrime, o grida o un incontro di wrestling le parole che dice non sono necessariamente le mie e le emozioni che vi riverso nessuno può sapere da dove provengono, nessuno può indovinare a quale fatto specifico della mia infanzia mi rifaccio, quale momento in cui ho provato l’umiliazione e la paura e il dubbio sto portando sulla scena. Nessuno tra il pubblico lo capirà. Ciò che capirà è che Michael sta soffrendo e lo percepirà come qualcosa di vero, di sostanziale perciò recitare è per me uno spazio sicuro in cui rivelarmi ma non è come se stessi necessariamente scrivendo la mia autobiografia perché sono io ma non lo sono, sono io ma non lo sono.  

 

I: Quando scrivi mi sembra che quella linea di confine sfumi, che usi le tue esperienze personali al di fuori degli spazi sicuri della recitazione, che in qualche modo tu venga fuori attraverso i tuoi scritti. Com’è stato, voglio dire, come ti sei sentito nel rivelarti apertamente quando prima tutto era racchiuso in una performance?

 

WM: È liberatorio, è sempre liberatorio. Ho avuto la possibilità di replicare ad un meme che girava su internet non molto tempo fa. È saltato fuori un paio di volte sulle mie pagine dei social, mi ha colpito e scioccato. Allora mi sono sforzato di tirare fuori tutto questo e di metterlo per iscritto. Ho deciso di postarlo e si è diffuso su Facebook e, arrivando in posti diversissimi, ha parlato a tante persone di tante cose. Suicidio. Depressione. Problemi nel relazionarsi col proprio corpo. Fat shaming. Sono riuscito a tirare fuori quello che sentivo e mi ha fatto bene ma mi sono anche accorto che il processo di espressione personale, che è intrinsecamente centrato sul proprio sé e lo intendo in maniera positiva, può essere d’aiuto ad altri perché sono riuscito a tradurre in parole qualcosa in cui molte persone potevano immedesimarsi ma che non per forza erano in grado di dire a sé stessi per una qualsivoglia ragione. Questa cosa mi ha rincuorato, mi ha incoraggiato a pensare che nello spingermi lì dove riconosco di sentirmi a disagio, spaventato, intimidito arrivo in punti in cui tutti vorremmo arrivare se ci fosse permesso. Una cosa che mi riporta concretamente a quello che vuol dire essere un attore per me. Uno degli insegnanti diceva che recitare è considerata una nobile professione perché un attore trascorre la sua vita correndo incontro a quelle esperienze, quelle emozioni da cui le persone normali cercano di allontanarsi durante la loro vita. Ecco perché è importante che esistano gli attori perché attraverso di loro, attraverso i loro racconti, possiamo vivere collettivamente un’esperienza catartica.

 

I: Facendo ciò intendevi essere un modello da seguire? Sapevi che avresti ottenuto questo effetto?

 

WM: No, non ho mai avuto intenzione di diventare un modello. Penso che avvicinare le persone con l’intento di insegnare loro qualcosa le farebbe ritrarre. Almeno io lo farei. Quindi tutto quello che posso fare è offrire il mio esempio e sperare che qualcuno si senta toccato. Gestisco una pagina Facebook da due anni, è pubblica, ha ricevuto molti like e nei miei post parlo di identità di genere, suicidio e alcuni scritti personali. C’è molto poco di cose come Prison Break o Legends of Tomorrow. Mi è stato chiesto come scelgo i post e io lo faccio per raggiungere due destinatari. Me stesso e qualcun altro. Quella pagina esiste per aumentare la mia consapevolezza, la mia esperienza personale e, inoltre, spero che qualcuno lì fuori, che magari non preme neppure il tasto like, che non commenta nemmeno, possa sentirsi toccato da ciò che condivido.

 

Ragazza con la sciarpa grigia: Sono solo curiosa di sapere cos’è il successo per te e se puoi darci un consiglio su come fare per ottenerlo.

 

WM: Il successo e come raggiungerlo. Il successo per me è sentirmi in sintonia con me stesso. Sentirmi in sintonia significa “quello che penso è quello che dico, è quello che faccio”, al contrario di come ho fatto nei primi quarant’anni della mia vita che è stato “quello che penso è quello che qualche volta dico ed è quello che sporadicamente faccio”. Così, quando queste cose sono in sintonia, qualsiasi cosa stia facendo, qualsiasi cosa stia vivendo è un successo. Accettare la sincerità, parlare con sincerità. Come fare per ottenere ciò? Con la pratica. Essere sinceri richiede pratica e capacità di perdonare. Essere capaci di perdonare sé stessi per non aver fatto quella certa cosa nel modo giusto, “per non averla fatta splendidamente”. Ricordo che al college una delle regole che dovevo seguire era “fallo splendidamente o non farlo affatto e se e quando lo fai “splendidamente” non raccontare a nessuno quanta fatica ti è costato”. Così, se qualcuno ti chiedeva se avevi studiato per il test la risposta era sempre “no” mentre tu, invece, avevi studiato per tre settimane o magari per tre mesi, così quando ottenevi la tua A sembrava fosse stato facilissimo. Era una stronzata perfettamente inutile.

Dunque, esercitarsi a perdonare. Ampliare la mia definizione di cosa sia giusto così da poterci lavorare su, così da non sentirmi in imbarazzo per essermi esposto… perdonare me stesso per aver provato e non essere riuscito. Tutte queste cose sono molto importanti. Conosco qualcuno che, per esempio, aveva deciso di studiare legge e poi, dopo qualche mese, ha scoperto che non faceva per lui e ha preso quella che ho pensato fosse una decisione davvero coraggiosa: lasciar perdere quella cosa che non faceva per lui invece di tenere duro per salvare le apparenze. E conosco altre persone che hanno studiato legge, si sono laureati e che però pensano “Cazzo, io odio il diritto ma ora ho questa laurea, ho il debito studentesco da ripagare e mi sa che devo andare fino in fondo con questa cosa”. Sentirli parlare così della loro vita mi intristisce, non è una strada che avrei scelto per me perciò non abbiate paura di provare e di fallire. È parte del successo.

 

I: Credo che abbiamo il tempo solo per un’altra brevissima domanda.

 

Ragazza con la sciarpa a quadri: Dunque, io provengo da un background culturale in cui essere indicati come depressi è uno stigma sociale. Qual è il tuo punto di vista a proposito della necessità di creare una maggiore consapevolezza culturale riguardo alla depressione come malattia?

 

WM: Credo che dipenda dalla persona con cui stai parlando e da quello che pensi possa fare più profondamente breccia in quella stessa persona. Per esempio, c’è un video che ho girato con I Mighty, un’organizzazione che intende richiamare l’attenzione su diverse malattie, inclusi i disturbi mentali, che spiega un po’come si manifesta la depressione. È un video di tre-quattro minuti e so che è piaciuto perché hanno pensato di farlo vedere ad amici e familiari dicendo “ecco, questo è ciò di cui parlavo, quello che ho provato a spiegare a parole per tutti questi anni”. Perché la depressione può essere difficile da descrivere. Possono essere link, video, confronti di gruppo o dialoghi faccia a faccia: credo che l’importante sia che le persone parlino della depressione. Mi sembra che Bruce Springsteen abbia appena scritto un’autobiografia in cui racconta come la depressione abbia influenzato la sua vita. Questo accresce la percezione delle persone – del suo pubblico, dei suoi fan, dei suoi lettori – di quali siano le cose di cui si può parlare. Dobbiamo essere disposti a parlare di cose che ci mettono a disagio. Le cose indicibili che vengono taciute creano un muro di silenzio e, dall’altra parte di quel muro, ci sono persone che soffrono. Per questo motivo dobbiamo essere coraggiosi e, con i nostri tempi e nel modo che ci fa sentire più sicuri, intavolare una conversazione e iniziare ad abbattere questo pregiudizio. Credo che sia questo il modo in cui va fatto: parlandone apertamente nei modi e nei tempi più giusti per noi.

 

I: Bene, credo che noi tutti andremo via sentendoci più sicuri di noi stessi, spero. Ho imparato tanto oggi e così spero tutti gli altri. Ringraziamo tutti il meraviglioso Wentworth Miller.

Si ringrazia la community di WENTWORLD per aver collaborato fornendoci il testo trascritto del Q&A


2 Risposte a “Oxford Union – Università di Oxford (UK, 9 ottobre 2016) ”

  1. Complimenti un gran lavoro! la lettura è molto scorrevole e non sempre è scontato quando si tratta di traduzioni. Che dire sicuramente si ritrova il suo stile e anche accenni alle varie note che ha pubblicato si FB i suoi temi essere il migliore amico di te stesso per essere una persona migliore, vivere un giorno alla volta e assaporare le piccole cose che ti rendono felice, un bellissimo messaggio

    1. Ciao Raf. Grazie anche a te. L’ispirazione negli anni la dobbiamo al vecchio forum e quello è anche merito vostro. Le traduzioni sono tutte eseguite da persone nostre care amiche motivate dalla passione e la conoscenza di Wentworth da molti anni. Ogni riferimento al suo stile è dovuta proprio a un’attenta e curata analisi dell’attore. Grazie di tutto Raffaella.

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