Role(s) Of A Lifetime

Ruol(i) Di Una Vita.

Nota originale: Role(s) Of A Lifetime

Wentworth nel ruolo di Paride, (Romeo & Juliet) per il lungometraggio del regista inglese Colin Cox che in seguito ne ha realizzato una collaborazione con le produzioni teatrali. Anno 2000.

Traduzione a cura di Lucia Salvato.


Non potrei mai fare l’attore”.

Lo sento dire abbastanza regolarmente.

Quello che penso, quando lo sento, è “Stai recitando proprio adesso. Quando dici che non potresti mai fare l’attore”.

Tutti noi recitiamo. Continuamente. Secondo Me.

Come Quando Sappiamo Quello Che Stiamo Facendo. Come Quando Non Vogliamo Il Dessert. Come Quando Pensavamo Che Era Divertente. Come Quando Non Ce Ne Frega Un C-zzo. Come Quando Ci Mostriamo Più Sicuri Di Quanto Non Siamo In Realtà. Come Quando Non Baciamo Al Primo Appuntamento. Come Quando Va Tutto Bene A Scuola. Come Quando Va Tutto Bene A Casa.

Non potrei mai fare l’attore”.

Quello che ho risposto, quando ho sentito questa frase (l’ultima volta), a un uomo, un padre, è stato “La prossima volta che leggi una storia della buona notte alla tua bambina, e Fai Tutte Le Voci, Entrando Nella Parte, Lasciandoti Coinvolgere, facendo un tale trambusto che tua moglie entra tutta finta-seria, si appoggia sulla soglia con le braccia conserte, tipo “Cosa sta Succedendo qui?” (magari lei per davvero dice “Cosa sta Succedendo qui?”) rifletti un momento. Quello sei tu. Che stai recitando”.

Per sua figlia. Inizialmente. Per sua moglie, pure, quando lei entra. Per i suoi cari quest’uomo metterà su uno spettacolo. Eseguirà una rappresentazione con la “R” maiuscola. E le loro reazioni, o l’assenza di esse, influenzeranno le sue scelte. Il suo volume di voce. Il suo tono/tempismo. Lui si modulerà, si contorcerà, si piegherà all’indietro (magari letteralmente) per ottenere una risatina in più. Per provocare un altro “Oooo” e “Ahhh”. In questo momento, nella camera da letto di sua figlia, per un pubblico di due persone, quest’uomo, che non è un attore professionista, potrebbe dare ai professionisti del filo da torcere.

È possibile che si sopravvaluti l’impatto del nostro pubblico? La loro influenza? Su di noi? Gli…esaminati/scrutinati da quello stesso pubblico?

L’azione di osservare modifica ciò che viene osservato”, come dice il detto. (C’è anche un principio/una teoria scientifico/a che si applica a questo, ma questa roba è un po’ fuori dalla mia portata).

Recentemente ho potuto constatare, in prima persona, il mio impatto come membro del pubblico. La mia influenza. Il mio potere. Sono andato a una lettura di David Sedaris (sono un suo fan), seduto in un teatro affollato per più di un’ora mentre lui leggeva/eseguiva del materiale nuovo per un suo futuro libro o libri. E ho riso fino alle lacrime. Quando finì, qualcuno che io sapevo che era seduto in galleria, che aveva una visuale a volo d’uccello su Mr. Sedaris e sulla parte superiore del podio (io avevo una visuale diversa), disse che aveva preso appunti per tutto il tempo. Aveva revisionato il suo materiale mentre la serata andava avanti. In base alle nostre reazioni. Aveva modificato e corretto. Aveva segnato le battute che avevano Funzionato e quelle che avevano Funzionato Meglio. Quando l’ho sentito ho pensato: “Wow, Noi – il pubblico – abbiamo davvero influito su ciò che sarà e su ciò che non sarà sul prossimo libro di David Sedaris”. Ho pensato, “Noi siamo NEL suo libro. Si può dire”. Una sensazione inebriante. (Come dicevo, sono un suo fan).

La connessione tra intrattenitore e pubblico è intima. È una relazione. Mette l’intrattenitore e il pubblico IN relazione. Come ben so, avendo trascorso l’ultimo decennio ad essere salutato, quotidianamente, da estranei che mi abbracciavano come un familiare che non vedevano da molto tempo. Come dicevo. Una relazione Intima. E posso dirvi, “L’azione di osservare modifica ciò che viene osservato”. Significativamente. Al supermercato, nel bancone dei surgelati, con qualcuno in piedi un po’ troppo vicino, che mi fissa, come se fosse a casa a guardarmi in TV, posso sentire la mia temperatura corporea iniziare a salire. Al ristorante, avvistato da un altro cliente dall’altra parte della sala, che inizia a tenere il telefono in un modo tale che sembra che mi stia per fotografare, mi siedo più diritto. Mi pulisco gli angoli della bocca. Controllo se mi sto versando la zuppa sul davanti della maglietta. Cambio. Vengo cambiato. Sono diverso da prima.

L’azione di osservare modifica ciò che viene osservato”. Difficile – se non impossibile – stabilire quanto siano profondi questi cambiamenti. Quanto a lungo gli effetti possano durare.

All’università, mi sentivo intimidito quando gli altri studenti dicevano: “Ho sempre saputo che volevo fare il (inserisci quel che ti pare)”. Adesso lo trovo sospetto. Onestamente. Adesso penso, quando sento queste parole, “Sei sicuro?” Non posso fare a meno di immaginarli neonati nella culla, che fissano, ad occhi aperti, fidandosi, completamente in balia di uno o più facce adulte che guardano giù verso di loro, commentando, osservando, mandando messaggi che proiettano su di loro una gamma di qualità che potrebbero o non potrebbero trovare riscontro. “Lei è molto sveglia…Lui sorride sempre…”. Poi, più avanti “Lei è brava a fare le capriole…Lui è bravo coi mattoncini…” Poi, più avanti “Questa qui sarà un’atleta…Questo qui sarà un artista…”.

Quali sono le probabilità, quando avranno finalmente imparato a parlare, a mettere insieme una frase, per rispondere a una domanda del tipo “Cosa vuoi fare da grande?” quali sono le probabilità che questi ragazzi dicano qualcosa che somigli alla verità? La loro verità? Quali sono le probabilità invece, che essi dicano ciò che sanno che susciterebbe/solleciterebbe una reazione specifica nel loro pubblico di riferimento? (“Voglio fare il medico! Come la mamma!”) Quanti di noi tra quelli che “hanno sempre saputo” cosa volevano essere/fare da grandi stanno semplicemente recitando una parte? O la stavano recitando? Da anni? Recitando un ruolo o dei ruoli che qualcun altro gli aveva assegnato? A Hollywood si chiama “casting”. (Questo non è limitato alle scelte di carriera, naturalmente. Come ogni “pecora nera” e “bambino problematico” può testimoniare).

Ho visto un documentario tempo fa. Non ne ricordo il nome. In una delle interviste (questo me lo ricordo) un professore o qualcuno del genere stava discutendo parlando di FDR. Franklin Delano Roosevelt. 32 ° Presidente degli Stati Uniti. FDR aveva una disabilità fisica che alla fine lo ha reso (secondo Wikipedia) “permanentemente paralizzato dalla vita in giù”. Eppure durante la sua presidenza ciò che vedreste, se guardate le foto dell’epoca (la maggior parte di esse), è FDR seduto, in piedi, o appoggiato a un amico o a un familiare. Sembrava, almeno in pubblico (questa è la parte cruciale), non avere alcuna disabilità. Appariva il Leader, di sana e robusta costituzione, Del Mondo Libero. In realtà doveva essere spinto. In carrozzina. Trasportato.

Googlate “FDR trasportato” e non troverete innumerevoli prove (visive). Secondo l’intervistato, si trattava di una cospirazione. Sostanzialmente. Una cospirazione nazionale per non mostrare mai che il Presidente apparisse nient’altro fuorché Presidenziale. I fotografi letteralmente abbassavano le loro fotocamere mentre veniva aiutato ad entrare/uscire dalla sua auto. Se qualcuno provava a scattare una fotografia, la sua fotocamera gli veniva strappata di mano.

Difficile immaginare un paparazzo, oggigiorno, mostrare un tale livello di discrezione. Ma il punto è che la disabilità di FDR era risaputa. A tutti. E nascosta. Da tutti. Intenzionalmente. Questo è stato descritto come una sorta di “teatro”. Un’esibizione. Un accordo tra FDR e il suo pubblico per raccontare/vendere, e per farsi raccontare/vendere, un racconto che tutte la parti coinvolte riconoscevano essere una finzione. AKA una “bugia”.

Guardando questa intervista ho pensato, “Ah. Mi è familiare”. Perché ho avuto la mia personale versione di “teatro”. Ai tempi. (Avevo intorno ai 35 anni). Si tratta di ciò che ho iniziato a pensare, e continuo a pensare, come al “teatro etero”. Ecco come il teatro etero funzionava (per me): Io, un uomo gay a Hollywood, faccio finta di essere Etero. Il mio pubblico di riferimento (agenti, direttori del casting, registi, produttori, direttori di studio, giornalisti, critici, co-protagonisti, spettatori a casa) 1. ci credono 2. non ci credono 3. fanno finta di crederci 4. non gliene frega un c-zzo.

In ogni caso, il mio “essere etero” era un racconto raccontato/venduto spesso. Un’esibizione (che ho iniziato a modellare dalla scuola elementare) nella quale io – in base alla/e reazione/i del mio pubblico, o all’assenza di esse – mi modulavo, mi contorcevo mi piegavo all’indietro. Facevo modifiche e correzioni, costantemente, segnandomi ciò che aveva Funzionato e ciò che aveva Funzionato Meglio. Per ottenere quello che volevo (una carriera, privilegi) ed evitare quello che non volevo (niente carriera, punizione).

E ciò mi ha cambiato. Nelle mie maniere. Nel mio modo di camminare/parlare. In ogni aspetto di me. Mi ha anche messo in una posizione vulnerabile. Estremamente. Vulnerabile verso il mio pubblico, che avevo bisogno credesse a quello che stavo mostrando. A volte lo facevano, a volte no. A volte ho perso un lavoro. A volte facevano finta di crederci quando gli altri erano in giro, poi facevano battute e commenti impertinenti che solo io potevo sentire. Mi guardavano mentre io silenziosamente mi imbarazzavo, consapevoli che non c’era niente che io potessi o volessi fare o dire in loro risposta. Perché avevo bisogno che loro Stessero al Gioco. Che si attenessero al copione.

L’azione di osservare modifica ciò che viene osservato”. Non è un processo passivo. È un processo attivo.

Mi faceva paura. Il potere che il mio pubblico aveva. Su di me. Un potere che io gli avevo assegnato. Quando non stai Dicendo la Tua Verità, e dipendi dal tuo pubblico che non Dice la Tua Verità, tu e il tuo pubblico state cospirando. Avete una relazione. Sta diventando intimo con persone con le quali potresti non volere che lo sia. Questo mi ha fatto arrabbiare. Verso di loro. E anche verso me stesso. Mi ha fatto vergognare anche. Chi mi ha messo in una tale posizione vulnerabile, in una tale posizione compromettente? Se non io stesso? È andata avanti per anni. Questa rappresentazione. Dell’ “essere etero”. Ed è stato, inutile dirlo, f-ttutamente estenuante.

Tutto a posto adesso?”

Mi è stato chiesto da un giornalista, al culmine di un’intervista formale. Mi ero già dichiarato gay (professionalmente), avevo condiviso la mia battaglia contro la depressione (pubblicamente), e questa era la sua prima domanda. Testa inclinata. Sorridente. Il tono di voce esattamente come lo sentite nella vostra testa.

Avrei potuto prenderlo a pugni in faccia.

Non l’ho fatto, ovviamente. (Questo avrebbe potuto suggerire che la risposta era “No”).

Dopo la mia depressione, trovo che la mia gamma di movimento, la libertà con la quale mi muovo nel mondo, sia enormemente migliorata. In modi diversi, mi sento limitato e vincolato come mi sentivo durante gli anni in cui ero depresso. Parte di questo ha a che fare con le lenti attraverso le quali osservo me stesso. Parte di esso è dovuto alle lenti attraverso le quali sono (potenzialmente) osservato dagli altri.

“Come stai?” la gente mi chiede. Persone che amo. E di cui mi importa. Persone che mi amano e alle quali importa di me. Guardo nei loro occhi, vedo che c’è una sola risposta che vorrebbero sentire. “Bene”, dico “Sto bene”. Annuiscono sollevati. La parte più difficile è finita. Ora possono guidare la conversazione in un’altra direzione. Per il resto della nostra interazione, interpreterò il ruolo di “Sto bene”. Una rappresentazione sul Benessere. Sull’essere Okay. Il mio pubblico di riferimento 1. ci crederà 2. non ci crederà 3. farà finta di crederci.

In ogni caso, sono grati della finzione.

Dopo la mia depressione, quello che adesso sperimento, nella vita di tutti i giorni, con un sacco di persone (non tutte, ma molte), con persone che hanno familiarità con la mia storia di salute mentale, che intenzionalmente o meno hanno contribuito a creare quel muro di silenzio dietro al quale le Cose Capitano, per anni, con persone che hanno fatto solo c-zzate invece di supportarmi mentre lottavo, scusate – con persone che non sapevano COME supportarmi (per usare un’espressione generosa), è che quel “Sto bene” è il loro ruolo favorito. “Michael Scofield?” No. “Capitan Cold?” Passo. Quello che vogliono è “Sto bene”. Bene Per Tutto Il Tempo. Un episodio dopo l’altro di “Sto bene”, per favore. A richiesta. Buone notizie – questo è il mio casting. L’ho provato per anni.

“Sto Bene” sta Bene. La sua m-rda? Tenuta insieme! “Sto bene” non fa casino, non crea confusione, non si lagna. “Sto bene” non sperimenta turbamenti normali, come te. No. Nessuna battuta d’arresto al lavoro, niente amici inaffidabili, niente brutti sogni. Niente aggressività al volante, niente rabbia. Niente tristezza, niente sensi di colpa. Niente vergogna, niente paura. Perché se “Sto bene” AMMETTESSE di avere turbamenti normali, come fai tu, tutti i giorni, perché “Sto bene” è vivo su questo pianeta col suo respiro in corpo, le persone inizierebbero a Saltare Alle Conclusioni. Inizierebbero a preoccuparsi che Sta Succedendo Di Nuovo. No no. Non c’è bisogno di preoccuparsi. “Sto bene” sta meglio adesso. Si. Tutto Va Meglio. È anche più saggio. E discreto. Sempre così discreto. “Sto bene” non gradirebbe che si insista a continuare a parlare di Quello Che È Successo, non gradirebbe mettere tutti a disagio, di far luce sul fatto che alcune persone (ancora) non hanno nessuna idea di Cosa Sia il Supporto. Altro tè? Ti ringrazio.

Questo è, ovviamente, profondamente dannoso. Pericoloso, anche. È uno dei motivi per cui sono finito nei guai, in un primo momento. Pressato e tirato a lucido in pubblico, con pensieri suicidi in privato. Rappresentare il Benessere mentre sto rappresentando l’Essere Etero mentre sto rappresentando qualsiasi altro ruolo Hollywood abbia ritenuto opportuno assegnarmi. Uno spettacolo di un solo uomo per un circo a tre piste. Che va avanti senza pause. Da anni. Inutile dirlo – f-ttutamente estenuante. Alla fine sono arrivato a un punto in cui non potevo più farlo.

Dopo la mia depressione, la sfida che ho scoperto – una delle tante – è di continuare a Dire La Mia Verità indipendentemente da come viene recepita. Tutta. Lavorare per integrare il mio passato e il mio presente – il mio passato NEL mio presente – invece di seppellirlo. Invece di cancellarlo. Invece di cospirare con il mio pubblico facendo finta che non sia mai successo. Cosa che alcune persone (persone che amo e delle quali mi importa) potrebbero preferire. Che si tengano le fotocamere abbassate, fino a quando non mi rimetto in sesto.

Niente da fare. Ho turbamenti. Come tutti. Devo condividere queste cose. Come tutti. Devo dare voce alla mia rabbia, alla mia tristezza, al senso di colpa, alla vergogna, e alla paura (e alla gioia). Come tutti. E devo parlare delle mie lotte. Della mia depressione. Dell’ideazione suicida. Degli anni bui. Devo onorare dove sono stato. Dove ero. E devo avere brutte giornate. Adesso. Oggi. Devo stare Non Bene. Devo smettere di recitare. Di rappresentare. Per un minuto. Forse due.

Questo è un duro lavoro. Provocatorio (potenzialmente). Indisponente (potenzialmente). Non solo per me. Io che do un’occhiata alla mia m-rda invita/sfida le persone intorno a me a guardare nella loro. Potrebbero non volerlo fare. O non possono permetterselo. Perché stanno recitando anche loro. Il mio pubblico. Forse diversi ruoli alla volta. (Questa è la parte compassionevole. E trovo utile andare alla ricerca di una parte compassionevole). Può sopraffare le persone, può spaventarle, se non mi attengo al copione.

Come stai?” mi chiedono. “Vuoi la verità? Sto passando tanto tempo a regolare la mia rabbia”, dico. I loro occhi si spalancano. “Come stai TU?” chiedo. E loro dicono…Beh, potrebbero non sapere cosa dire. Siamo in un territorio inesplorato adesso. Potrebbero finire per dire…Chissà? Qualsiasi genere di cose. Cose che non si sarebbero mai sognate di dire. Come la verità. Che, anche loro, non “Stanno Bene”.

Qualcuno sta davvero bene?

Tutti noi recitiamo. Continuamente. Secondo Me. E può essere allarmante/disarmante quando qualcuno getta la maschera, si rivolge al suo pubblico, e dice, “Ehi, questa cosa di “Sto Bene” … Tutti noi sappiamo che è una recita, giusto? Una finzione. È un ruolo che recitiamo”. È allarmante/disarmante perché quel qualcuno non sta solo rivelando sé stesso. Non sta solo Dicendo La Sua Verità. Sta rivelando anche noi stessi. Sta anche Dicendo la Nostra. Mentre siamo seduti raggelati ai nostri posti. A guardare. La maschera ancora sui nostri volti. Che iniziano a sudare.

 

 

Quanto sopra non è “la verità”. È la mia verità. O meglio, la mia verità del momento. Dalla quale mi riservo lo spazio/il permesso di evolvermi in ogni momento.