Secondo Discorso Per L’HRC (Bozza)

Nel 2014 sono stato invitato a tenere un discorso ad un secondo evento della Human Rights Campaign. Purtroppo, a causa dei miei impegni, non sono potuto essere presente, ma me ne sono reso conto solo dopo aver già iniziato la stesura del mio discorso. Pubblico di seguito la brutta copia delle osservazioni che avrei potuto muovere quella sera. – W.M.

“Perché gli omosessuali si guardano sempre intorno?”

E’ una domanda che qualcuno una volta mi ha rivolto.

Io ho risposto: “Che cosa vuoi dire?”. Loro mi hanno detto: “Sai – al bar, allo sportello del bancomat, in Chiesa la domenica… E’ come se voi vi guardaste sempre intorno. Come se stesse esaminando la stanza: “Ehi, chi c’è qui? Qualche bel ragazzo? Che vi prende?”

Ho trovato quella domanda offensiva. Un classico sospetto.

Non sono mai stato quel ragazzo che si guarda intorno. E di certo non ero quel ragazzo fino a 5 minuti fa. *Fa finta di tossire*

No, in tutta onestà, se devo essere sincero, è un atteggiamento che ho notato in me stesso. Non appena entro in una stanza, mi guardo intorno. E’ un gesto istintivo, radicato. Ovunque io mi trovi, finisco sempre con il guardarmi intorno. Ma per quel che mi riguarda — forse anche per gli altri — non credo di guardarmi intorno per vedere se c’è qualcuno di carino. Non lo faccio solo per questo, per lo meno.

Credo che dipenda da qualcos’altro.

Credo di farlo perché ho bisogno di sapere chi c’è nella stanza. Chi mi sta passando accanto. Chi c’è dietro l’angolo. Chi mi sta dietro. Chi è come me. Chi non lo è.

E mi sono chiesto: Quand’è cominciato tutto questo? Quand’è che mi sono preso l’abitudine di… beh, diciamo “sorvegliare”.

Forse quando mi sono reso conto che non tutte le stanze sono sicure.

Tutti qui sono stati in una stanza dove non si sono sentiti al sicuro. Forse è stato così in passato. Quando eravamo dei ragazzini. In classe. Oppure a casa, nella nostra cameretta, in fondo alla stanza dei nostri genitori. Forse, è così ancora oggi, in questo momento, sul posto di lavoro.

E’ così che molti di noi vivono. Spostandosi da una stanza all’altra. Guardandosi intorno. Cercando di capire se il luogo è sicuro o meno.

Ed è logorante. Non è vero? Quella parte di voi. Costantemente vigile. Vigile al pericolo. Alla possibile minaccia. “Chi c’è qui? Che volevano dire con quell’espressione? Qual è il significato sottinteso? Posso abbassare la guardia? Anche solo per un secondo?”

Una volta avevo questa teoria… Se fossi entrato in un negozio e mi fossi avvicinato al banco ed il ragazzo dietro la cassa mi avrebbe detto: “Posso aiutarla?” ma non si fosse preso il disturbo di alzare lo sguardo e guardarmi negli occhi, allora probabilmente non sarebbe stato gay. Perché sarebbe stato un lusso. Non è vero? Non sentire il bisogno di guardare negli occhi chi ti sta parlando. Il presupposto per la sicurezza.

Ogni Autunno, il mio liceo organizzava questa cosa fantastica in cui ogni classe avrebbe dovuto realizzare un musical originale e competere contro le altre classi. Era molto divertente, molte persone partecipavano e durante il terzo anno io ero il protagonista. E trascorrevamo intere settimane a prepararci per questa cosa. Erano tutti tesi ed emozionati. Era una cosa molto importante. Sembrava essere una cosa molto importante.

Ed un paio di sere prima della gara, c’era la prova dei costumi. Ed era lì che avevi l’opportunità di vedere che cosa avessero preparato, durante l’anno, le altre classi. Contro chi avresti gareggiato.

Ed era tradizione che durante la prova dei costumi si prendessero in giro le altre classi. Scherzetti e battutine — la maggior parte delle quali preparate — sui loro set, costumi e via dicendo. Giusto per scaricare la tensione dopo tutto quel duro lavoro.

Non era tradizione prendersi gioco delle persone. Isolare qualcuno e prenderlo di mira.

E’ il turno della mia classe — quella del terzo anno — mettiamo su lo show, canto e ballo un po’ e lo spettacolo va molto bene. Siamo davvero orgogliosi del nostro lavoro. Io sono orgoglioso del nostro lavoro. Poi, noi tutti ci sediamo per assistere allo spettacolo di un’altra delle classi in gara. Ad un certo punto, nel bel mezzo dello show, uno studente sale sul palco e fa un’imitazione. La mia.

Ed è questa… pantomima. Questa parodia della “gaytudine”

Non è durata che pochi secondi. Ma sembrava un’eternità.

Nemmeno io volevo ammettere di essere gay. Ero paranoico sul mantenere il segreto. Ma all’improvviso è come se qualcuno avesse acceso una luce o come se avesse puntato una freccia su e contro l’unica cosa a cui non volevo che gli altri pensassero o prestassero attenzione. Io stesso incluso.

Da quella notte è passato un po’ di tempo ormai. E’ stato più di dieci anni fa. Ma ricordo ancora il senso di vergogna, di umiliazione e la paura che hanno attraversato il mio corpo, dalla punta dei piedi fino alla punta dei capelli. Ero seduto in questa stanza con altre 200 persone che vedevo tutti i giorni. Amici. Insegnanti. Tutte le persone che conoscevo. Tutti erano testimoni di quest’incubo personale che diventava realtà.

Il pubblico, nel momento in cui è successo, ha cominciato a fischiare in segno di disapprovazione.

Ma c’era anche chi rideva.

Non so come ho fatto, ma rimasi seduto fino alla fine dello spettacolo. E quando lo spettacolo finì, lasciai l’auditorium, percorsi il corridoio sul retro della scuola e me ne andai. Cominciai a piangere.

E poi cominciai a pensare: “Devo andarmene da qui”. Ma era notte e tutte le uscite secondarie erano chiuse. Pensai allora che sarei dovuto uscire dall’uscita principale, quella di fronte all’edificio, con tutta quella folla accalcata fuori. E mentre cercavo di farmi strada, mi resi conto di essere agitato. E mi vergognai per questo. Perché apparivo vulnerabile di fronte ai miei coetanei.

A scuola, il giorno dopo — e questo è successo verso al fine degli anni ’80, epoca in cui era ancora troppo presto per mostrare sensibilità e consapevolezza — il giorno dopo, a scuola, uno dei responsabili scolastici, mi mise a sedere con gli studenti coinvolti.

Loro si scusarono. Io accettai le loro scuse.

Erano sinceri. Lo ero pure io.

Eppure, quella Primavera, la mia famiglia ebbe l’opportunità di trasferirsi in un altro Stato e quando i miei genitori mi chiesero: “Ti dispiacerebbe cambiare liceo? Dovresti trascorrere il tuo ultimo anno di scuola lontano dai tuoi amici, da tutte quelle persone con cui sei andato in classe negli ultimi tre anni”, io risposi: “No”. Dissi: “Non mi importa. Andiamocene”. E così ce ne andammo.

Noi tutti — sempre — cerchiamo delle stanze in cui sentirci al sicuro.

Questa stanza sembra sicura. Ma noi tutti credo siamo d’accordo sul fatto che ci sia un’eccezione. Respiriamo area rarefatta. Per milioni di uomini, donne e bambini, questa stanza è pura fantasia. Non sanno che cosa vuol dire sedersi a questi tavoli. Non doversi sempre guardare intorno. Domandandosi chi sia presente.

La Human Rights Campaign ha costruito questa stanza. In maniera logistica ed energetica, con coscienza ed attenzione, la HRC ha costruito questa stanza perché noi tutti potessimo essere qui stasera e godere della compagnia altrui. Del supporto. Della sicurezza. E questa è la stessa cosa che la HRC vuole fare anche fuori di qui. Costruire delle stanze che siano sicure. Una per una. Nelle case, nelle scuole, nei ristoranti e sul luogo di lavoro. Nelle camere del governo.

E per farlo ci vuole tempo. Energia. Determinazione. Risorse. Bisogna saper essere generosi e regalare. Le stanze sicure non nascono per caso. Vengono costruite. Da persone come voi. Che siedono in stanze come questa. Così che qualcun altro, che si siede altrove, non debba sedersi lì per sempre.

A loro nome — a nome mio — io vi dico: “Grazie”.

SOURCE

Traduzione a cura di Tamara Rizzato

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