#modalitàdisopravvivenza (#survivalmode)

 traduzione a cura di Miria  

NdT: Chiedo in anticipo scusa per eventuali difetti di interpretazione e adattamento di questo testo, ma ho fatto quello che ho potuto con le mie scarsissime capacità in inglese. Grazie per la pazienza.


Sono rimasto colpito da un post su un blog. O forse un articolo editoriale. È scritto come una lettera. Delle scuse pubbliche. In un certo senso. Scritte per qualcuno (a chiunque?) che l’autore aveva conosciuto quando/mentre sono stati malati.

Non ero in me all’epoca”, era il concetto “Allora ero depresso ma adesso sto meglio. Vorrei una seconda opportunità per dare una buona prima impressione”.

Quello era il concetto generale. E mi ha colpito.

Ho rispettato lo scrittore. Ho rispettato la loro verità.

Ma (ed è un “entrambi/e” e non un “nessuna/o”) non era la mia verità.

La comunità della salute mentale (e con questo intendo quelli di noi che lottano con i problemi/disturbi di salute mentale) è varia. Chiedi a 100 persone che soffrono di depressione cosa voglia dire essere depressi e otterrai un centinaio di differenti risposte. Ognuna di loro è vera.

È importante rispettarlo (a mio parere).

La verità dello scrittore, non era la mia verità, ma ciò non lo rendeva inesatta. Se questo ha un senso.

Tra parentesi: questo è il motivo per cui io non affermo di essere una “voce per coloro che non ne hanno”.  Posso stare affianco al megafono di qualcuno, ma quando parlo, parlo per me stesso. Di me stesso. Se quello che dico risuona con chiunque altro e riflette una parte della loro storia, grande. Ma prima o poi vi dirò qualcosa che è vero per me e solo per me. E mi riservo questo diritto. La mia sopravvivenza – radicata nell’auto-espressione, nella condivisione della mia verità con i miei tempi a modo mio – dipende da questo. Quindi, quando parliamo di salute mentale, io lo metto in chiaro: non parlo per gli altri. E le altre persone non parlano a mio nome. Questo sarebbe impossibile. A meno che gli altri non siano per caso un uomo gay di 45 anni, di razza mista, nato in UK, cresciuto a Brooklyn, e il loro nome non sia “Wentworth Miller”.

(allora si, loro parlano al posto mio.)

Tornando al post sul blog, a quello che mi ha colpito.

“Non ero in me all’epoca” era il concetto. “Allora ero depresso ma ora sto meglio e vorrei una seconda opportunità per dare una prima buona impressione”.   

Come ho detto questo sembra come chiedere scusa. Una specie. Le ho ricevute/capite. Totalmente.

Nel corso degli anni(decenni) ho sofferto di depressione e ho fatto e detto cose per cui più tardi ho sentito la necessità di chiedere scusa. Qualche volta lo facevo di persona, qualche volta tramite una telefonata o via email. A volte le mie scuse sono state accettate. Malgrado tutto, era importante dire le parole “Mi dispiace”. Assumersi l’appartenenza di quello che ho fatto e detto durante quegli anni in cui stavo combattendo.

Di due cose non mi sono e non mi scuserò:

1.Essere depresso.

2.Essere la persona che ero quando ero depresso.  

Io non chiedo/non voglio chiedere scusa per essere stato depresso, perché non potrei/non posso farci nulla. È come il colore dei miei occhi, era/è al di sopra del mio controllo.

Io non chiedo /non voglio chiedere scusa per essere stato la persona che ero quando ero depresso perché, sebbene sì, quella persona (io) ha fatto e detto cose per cui ha sentito, solo più tardi, la necessità di scusarsi, quella persona (io) ha anche salvato la mia ca–o di vita.

Storia vera.

Quella persona (io) – arrabbiata, afflitta, stanca, stordita, scortese, inquieta, disperata, insonne, inetta, inerte, egoista, sgarbata, inopportuna, solitaria, irascibile, compulsivo, instabile, inaffidabile e spesso imprevedibile – è la ragione per cui io oggi sono ancora qui.

Non sono più nella funzione di umiliare me stesso. In questi giorni mi rendo conto che l’amor proprio e l’autostima figurano come voler accettare tutto di me stesso. La mia integralità. Il mio spettro completo. Fino a includere chi ero nei Miei Giorni più Oscuri quando Non ero al Meglio di Me. Quando mi stavo Solo Allenando a Fare Un Passo Alla Volta.

Quando il mio telefono si sta per scaricare e slitta in “modalità batteria quasi scarica” non mi arrabbio con il mio telefono. Gliene sono grato. Sta facendo quello che ha necessità di fare quando deve spremere fuori quei minuti in più.

Sono grato al me stesso che ero quando ero depresso. Il me in “modalità batteria quasi scarica”. E a lui dico, “Grazie per aver avermi spremuto fuori quei minuti (anni) in più. Potrei ancora scegliere di essere te? Ca–o, no. Questo non significa che tu non valga la pena di essere onorato. Tu hai fatto quello che avevi necessità di fare, amico. Eri in modalità sopravvivenza. E hai fatto un fo–uto casino. Oggi io sono in giro ad annusare il profumo delle rose. E questo grazie a te”.

Il me del momento in cui ero depresso non merita di essere rinnegato adesso che sto “meglio”. Questo sarebbe a) irriconoscente b) irriguardoso e c) potenzialmente mortale. Perché potrei aver bisogno di lui ancora, un giorno.

Tanto tempo fa, la dissociazione fra chi ho finto di essere (“è tutto ok”) e chi realmente ero (“non è ok”) mi ha causato dolore. Per quel che mi riguarda il me che era “non è ok”, “non ero io”. Non era il preferito me. Non era il simpatico/amabile/disponibile/rispettabile/accettabile me. Il me che era stato “non è ok” era il cattivo “me”. Il “me” sbagliato. Non il “vero” me. Tanto da essere negato e tenuto in silenzio in buie stanze, una delusione nascosta dietro le bugie, con le tende abbassate finché lui fosse stato via e il “vero” me, fosse tornato.

Ora che io sono “è tutto ok”, adesso che io sono il “vero” me nuovamente, sono consapevole della pressione – un po’ interna, un po’ esterna – del fingere che il me che era stato “non è ok” non è mai esistito.

Il problema è:

1.Questo non è vero.

2.È una messa in scena per sconvolgerti: “adesso che io sono ‘Ok’ non posso essere ‘non ok’ di nuovo”. Ora che ho dato una nuova impressione di me – meglio della prima (fiuu) – ho bisogno di essere certo di non rovinarla (o altro). Ciò vuol dire che un giorno, se/quando riterrò che sarò “non Ok”, se/quando la mia depressione ritornerà e il “cattivo” me o il “sbagliato” me mostrerà la sua (brutta) faccia, io potrò sentirmi obbligato a negarlo per trattenerlo tranquillo nelle buie stanze finché non si allontanerà di nuovo. Come le altre volte.

E il ciclo continua.

Qui di seguito è Robert Bly a parlare del nostro processo evolutivo, la nostra lunga strada dalla caverna alla città. Funziona anche per il mio lungo percorso verso la guarigione: “Esiste un lato di noi che è oscuro, rettile, primitivo… [che non è] considerato essenziale per il mondo civilizzato… noi [desideriamo] scappare via da questo oscura, umida, bagnata, rettiliana cosa… [ma questo è il lato] che ci ha permesso di evolvere, non capisci? Per milioni di anni. Questo è connesso alla tua sopravvivenza. Quel serpente all’interno lì… [un rettile] sopravvive! Sopravvive! Sopravvive! [è questo il punto] che ci ha permesso di muoverci in assenza [di esso]. Non saremmo mai arrivati dove siamo stati. Saremmo morti. Quindi adesso siamo arrivati a questo punto, ma non lo vogliamo più. È stato sbattuto fuori”. (“What Stories Do We Need?” Seconda parte).

Lo vedo il mio primitivo. Il mio rettile. Il mio coccodrillo. E vedo il suo valore. Il lato di me determinato. Cocciuto come uno str—o. Il me in “modalità batteria quasi scarica”. Il me che ha continuato a progredire, talvolta sulla mia pancia, strisciando attraverso quei lunghi estenuanti anni, sinché l’ho fatto uscire fuori dalla palude. Non lo metterò da parte, ora. Il mio coccodrillo. Perché la vita è complicata (ancora). Minacciosa e destabilizzante (ancora). E lui ha Una Particolare Serie di Abilità (ovviamente).

Tempo fa ho postato, su questa pagina, una tematica che faceva riferimento ai koalas, tutti affettuosi, carini e pelosi. Da allora sono diventati un sinonimo di “abbracci”. Questo mi rende felice. #koalas

Questo è anche come alcune persone scelgono di percepirmi. La parte di me su cui a loro piace concentrarsi. Il mio koala. Ad esclusione di tutto il resto. “Sei cosi dolce”. Mm-hm. Quante volte ho sentito questo?

(Molte, molte volte).

Beh, è vero. Sono dolce.

Non è neanche tutta la verità. Grazie a Dio. Perché se fossi al 100% koala (tutto affettuoso, carino, peloso), sarei già morto da un pezzo.

Storia vera.

Oggi io sono vivo grazie al mio coccodrillo. Tenace e resistente. Come il cuoio. Quando “civilizzandomi” desideravo Strisciare Sotto Una Roccia E Morire, lui era tipo “Niente da fare”. E poi “Quando si pranza?”. E’ fondamentale rispettarlo. (Secondo me). Assicurarsi che lui abbia un posto al mo tavolo. Anche se mastica con la bocca aperta e e spacca il servizio di porcellana buona.

Per me in questi giorni è molto meno “Vorrei una seconda opportunità per fare una prima buona impressione”, ed è più “La tua prima impressione non era inesatta. All’epoca ero me stesso. Sì – quello ero io. Ero in modalità di sopravvivenza. E lo ammetto io sono un ‘entrambi/e’ e non un “né/o’, fico?”

La risposta potrebbe essere “No”.

Alcune persone vogliono tutto Koala per Tutto Il Tempo. Loro perseverano su questo. Sono a disagio con me, rifiutano di compartimentale/criminalizzare il mio coccodrillo, preoccupati per me, ricontestualizzano una negativa, quanto positiva, incapacità/riluttanza a consentire la possibilità che il me “sbagliato” (arrabbiato, sofferente, stanco) è tanto meritevole della luce del sole e degli spazi, almeno quanto il “giusto” me (piacevole/amabile/disponibile). Mi dicono:”Sembri triste” utilizzando la simpatia per mascherare il loro disagio. Poi, nel tentativo di smascherarmi “Vorrei poter mettere un sorriso al tuo viso”. Dandomi pacchette sul braccio, loro mi controllano, segnalandomi che esiste un “accettabile” me e un “non accettabile” me. E gli spazi sono limitati per quest’ultimo. “perché non ti prendi una pausa?”, mi sussurrano. “Torna quando ti sei rimesso in sesto”.

A loro io dico, “Adios”.

Se questa è una scelta tra amare tutto di me e altre amabili, determinate, altamente selettive parti di me, non esiste una scelta.

Su dove/cosa devo lavorare, parrebbe riconoscere che il me stesso che ero “a quel tempo”, chi in precedenza ha sentito la necessità  di scusarsi, inventare delle scuse, il me che consideravo rotto/danneggiato/vergognoso/imbarazzante, la cui esistenza, consapevolmente e costantemente ho omesso dal curriculum, dalle riunioni familiari, dai primi appuntamenti, era ed è cruciale ed essenziale per mantenere la mia esistenza su questa terra.

“[un rettile]. Sopravvive. Sopravvive! Sopravvive!”

Si. Oh sì.

“[Questo è il lato] che ci ha permesso di evolvere”

Date a Cesare, ciò che è di Cesare.

“[questo è il punto]. Quello che mi ha permesso di progredire”

Dove sarei senza di lui?

“Saremmo morti”

Puoi scommetterci.

Questo vale la pena reclamarlo. Celebrandolo. Il mio coccodrillo merita un po’ d’amore.

Non fraintendetemi – io amo qualche Koala. Vale la pena di onorare anche lui.

Ma in quelle notte buie e crudeli, quando lui [nota di Miria : il koala] precipita dagli alberi battendo forte al suolo, quando non vuole nient’altro che gettare la spugna, sventolare la bandiera bianca e andare via (peloso) a gambe levate, è il mio coccodrillo che risorge dal fiume e fissa la morte con occhi imperturbabili.

E la morte riporta il cu-o indietro.

  

Fonte: WENTWORTH MILLER – Lunedì 5 giugno 2017

FONTE: nota originale 

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