A GOOD TALKING TO… (Un buon discorso per…)

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Foto originale scattata e condivisa da Wentworth Miller

“Non ci sono parole neutrali.. sia che tu stia parlando della vita… o che tu stia parlando della morte…”

Ho sentito qualcuno dire questo una volta. E non l’ho mai dimenticato.

Ho fatto un sacco di discorsi sulla morte dentro di me negli anni. Parole dure. Verso più direzioni. Rivolte a me stesso. E ad un certo punto credo di aver preso il bastone. Ho iniziato a parlare di morte dentro di me.

Ci sono cose che mi sono detto, su me stesso, in macchina/casa/doccia che non mi sognerei di ripetere in pubblico. E’ stato quello che se avessi letto in un libro a sentito in TV avrei pensato, “orribile”, “Violento” “Non và bene”. Parole che dicono – che hanno letteralmente incoraggiato – morte.

Se dovessi sentire un genitore dire ai propri figli le cose che ho detto a me stesso regolarmente, chiamerei la polizia. Per fare in modo che si portasse via quel bambino da quella casa.

Ed è solo quello che ho detto ad alta voce.

Nella mia testa c’è l’intera storia.

Nella mia testa ho un coro perpetuo, un gruppo di voci – alcune sono stridenti, altre seduttive, alcune suonano come individui specifici e altre non appartengono a nessuno in particolare – che può dipendere dal dire l’esatta cosa sbagliata all’esatto momento sbagliato. Disabilitandomi. Scoraggiandomi. Ricordandomi il mio posto (piccolo, nell’ombra) nello schema delle cose.

So che questo è vero anche per altra gente. Perché le ho ascoltate lamentandosi della stessa cosa. Hanno voci nelle loro teste di cui non possono liberarsi. Provandoci quando possono. Intolleranti. Denigratorie. Umilianti. Voci che suonano sospettosamente come quelle dei loro genitori o dei loro colleghi. Come un ex insegnante o un capo. O forse un ex. O più ex.

Beh se sei una di queste persone ho brutte notizie per te. Non penso che queste voci andranno via. Non credo che ci sia un modo per tagliarle fuori o spegnerle. Penso che resteranno lì.

Parlando di morte.

Quindi che fare?

L’immagine a cui penso sempre è una cassaforte, impilate dal pavimento al soffitto ci sono delle monete, tutte ricoperte con qualcosa di viscido nero e brillante. Vischioso. E ognuna di queste monete rappresenta una parola. E quella parola è morte.

E ce ne sono a migliaia. Queste monete. Accumulate per più di 40 anni, da che vivo su questo pianeta.

E questa cassaforte – questo conto – è a nome mio. Mi appartiene. Gli interessi sono costantemente in accumulo.

Ma c’è una seconda cassaforte. Stesse dimensioni ma quasi vuota. Solo una manciata di monete a terra in un angolo.

E queste sono fatte d’oro. E parlano di vita.

Alcune di queste monete d’oro sono state messe lì da altri. Le altre sono state messe lì da me. Ma il loro numero è esiguo.

Ho iniziato a credere che fosse mio dovere – mia responsabilità – riempire questa seconda cassaforte. Il mio dovere di parlare di vita a me stesso finché queste monete d’oro non saranno bilanciate e finalmente supereranno il numero delle monete nell’altra cassaforte. Quelle che parlano di morte.

Ok. Grande. Come fare?

Ogni giorno, alcune volte al giorno, dico qualcosa di carino a me stesso.

Seriamente.

Parlo a me stesso.

Parlo a me stesso di cose che sono nella mia vita e che apprezzo. La gente e le esperienze di cui sono grato. Cosa mi piacerebbe vedere accadere per me e per quelli a cui tengo.

Dico parole che sono confortanti. Generose. Di perdono. Parole che parlano meno di “auto-ammirazione” e molto più di “auto-compassione”. Parlo a me stesso come parlerei ad un caro amico. O come vorrei che quel caro amico mi parlasse.

Lo faccio in auto, lo faccio a casa, lo faccio sotto la doccia.

La potete chiamare preghiera. La potete chiamare pensiero positivo. La potete chiamare banale.

Io lo chiamo salva-vita. O forse salva vite.

Quando ho iniziato con questo esercizio non ho necessariamente creduto alle cose più amorevoli che volevo dire a me stesso. Ma crederci non è necessario. Ripetere lo è.

La ripetizione, per me, è la chiave.

Vedete sono piuttosto sicuro che non sono venuto al mondo credendo che non ero tanto o meno o non abbastanza. Non penso di essere venuto al mondo con il coro di odio che faceva eco nella mia testa. E’ stato grazie alla ripetizione, perché ho dato ascolto a queste bugie ancora e ancora di nuovo, che ho a quanto pare iniziato a credere – o almeno essere aperto a questa possibilità – che fossero vere.

Beh questa è l’occasione per giocare allo stesso gioco. Posso usare lo stesso principio – la ripetizione – per parare i piatti della bilancia.

Così ho detto cose carine a me stesso. Un sacco. Cose che non rivelerò qui perché sono private. Appartengono a me e a me soltanto.

Ma vi dirò qualcosa di miracoloso. Alcune delle cose che ho detto a me stesso (molte delle quali non ho creduto, all’inizio, fossero vere) le ho iniziate a sentire nella mia testa. Non volutamente. Sembrava avessi aggiunto alcuni membri al mio coro mentale. Perché ora, quando molti dei membri veterani iniziano con il loro opprimente/limitante/screditante, qualcuno risponde a tono.

E’ come se stia creando una nuova colonna sonora per me stesso. Lentamente ma in modo sicuro. Una playlist mentale aggiornata che offre supporto e sicurezza invece di sabotaggio e rabbia.

(Con una nota a margine, è un pò la stessa cosa che faccio da attore. Quando ottengo una nuova parte prendo le battute – scritte da qualcun altro, di un personaggio e una storia completamente non in relazione con me – e le memorizzo ripetendole ad alta voce. Con ogni ripetizione queste parole straniere e frasi diventano mano a mano familiari, acquistando peso e significato e trama finché non sono parte di me. Personalizzate. Pronte per essere dette e portate alla vita quando la telecamera inizia a girare.)

Sarò onesto con voi – non sono sempre dell’umore adatto per dire cose carine a me stesso. A volte sono stanco. A volte si, mi sento un pò stupido. A volte mi sembra di andare avanti per abitudine, come se non ci fosse niente dietro le parole nel momento in cui le pronuncio. Nessuna energia. Nessuna passione. Nessun entusiasmo. A volte sono solo.. parole.

Ma in quei giorni quando scopro di non essere dell’umore adatto, quando sembra che non abbia voglia di dare corda ai miei pensieri amorevoli e desideri per me e gli altri, penso alla cassaforte della morte. Le sue monete scure che crescono. Per il valore di quattro decadi. Penso a quanto ci vorrà per controbilanciare di nuovo. Quanti depositi avrò bisogno di fare nell’altra cassaforte, quella che parla di vita. Ricordo a me stesso che ho quel lavoro difficile per me. E che sarebbe meglio farlo.

Quindi apro la mia bocca per parlare. E quando parlo, parlo di vita.

Traduzione a cura di Kiara 

Nota scritta da Wentworth su FB — QUI 

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