Farina di Grano o Integrale

Farina o Grano

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Traduzione a cura di Kiara Desa

Farina di grano o Integrale

Vengo qui da un sacco di tempo, in questo buco-nella-parete di ristorante Messicano al centro commerciale lontano dall’autostrada, con le quesadillas di pollo che ho deciso in qualche momento a metà dei miei 20 anni (senza molta ricerca, ammetto) fossero le migliori a Los Angeles.

Nel 199-equalcosa era una piccola catena con il sogno del franchising e poche sedi, una delle quali vicino – più o meno, al mio appartamento. Quando è stata chiusa ho iniziato a fare avanti e indietro da una sede che non era vicina. Era lontana. E quando ci portavo qualcuno inevitabilmente dicevano, tra un morso e l’altro, che non valeva la pena spendere tanti soldi in benzina.

 

Ho pagato io non importa.

 

Ho una storia di problemi mentali alle spalle e la routine è importante per me. Lo è anche la coerenza. Motivo per cui, una volta che ho iniziato ad andarci, non ho smesso. Perché nelle centinaia di volte che mi sono avvicinato al bancone ho sempre ordinato la stessa cosa.

 

Sempre.

 

Una quesadilla di pollo su una tortilla di farina di grano con guacamole. Riso e fagioli su un lato. Più le patatine.

 

Seriamente. Non ho mai provato nient’altro nel menu. Per quel che ne so i tacos ai gamberetti fanno piangere un uomo. Non mi importa. Non sono sul mio radar.

 

Eppure in qualche modo, nonostante lo stesso pasto 2 volte al mese forse per 10 mesi all’anno per quasi 15 anni, il tizio dietro al bancone non ricorda mai il mio ordine.

 

Mai.

 

O, di conseguenza, per logica, di me. (intende dire, che se non ricorda il suo ordine di conseguenza non ricorda nemmeno lui)

 

Questo non è “Cheers” [“Cheers”, è una sit-com statunitense, andata in onda dal 1982 al 1993. La sit-com, ambientata in un bar di Boston, parla della vita dei suoi abituali clienti e dipendenti] Nessuno sa il mio nome. E se a qualcuno fa piacere che io venga, se lo tengono per loro.

 

Alla fine ho imparato a non aspettarmi che il tizio dietro alla cassa sappia il mio ordine. Quello che posso aspettarmi sono una bocca immobile ed uno sguardo piatto. Gratuiti.

 

Ed è confortante.

 

A volte.

 

A volte ho apprezzato profondamente di aver avuto l’opportunità di sentirmi anonimo. Nessuno si avvicina a me qui. Nessuno chiede una foto. Nessuno prende a volo l’opportunità di attaccarsi a koala attorno alla mia vita mentre un amico ripetutamente sbaglia a fare una foto sul loro smartphone.

 

Altre volte, l’aria sottovuoto della mia esistenza a LA, mi spinge dal mio appartamento alla macchina fino all’autostrada, e ritorno, quando il lusso di toccare o di essere toccato da un altro essere umano potrebbe dare soddisfazione, ho desiderato così tanto che il ragazzo dietro al bancone ricordasse la mia ordinazione, senza che io glielo chiedessi.

 

Ma no. Ogni volta che entro abbiamo praticamente lo stesso scambio che abbiamo avuto durante tutti questi anni:

 

Lui: Fa un cenno su con la testa e/o alza le sopracciglia per una frazione di secondo di contatto visivo tanto da segnalare che ho la sua attenzione.

 

Io: “Quesadilla di pollo, per favore”.

 

Lui: “Farina di grano o integrale?” Hanno 2 tipi di tortilla tra cui scegliere.

 

Io: “Grano.” Non facciamo pazzie.

 

Lui: “Riso e fagioli?”

 

Io: “Riso e fagioli.”

 

Distende una tortilla di grano sul fornello, ci sparge su il formaggio mentre io pago alla cassa dopodiché prendo la mia salsa al salsa bar. A meno che non prenda prima la salsa dal salsa bar per poi pagare dopo. Le cose cambiano in base a quanto è veloce la ragazza alla cassa a chiamarmi. (Sfrutto l’attesa facendo pratica di flessibilità).

 

Quando la mia tortilla si inizia ad imbrunire e il formaggio si sta sciogliendo, il tizio la toglie dal fornello e dice, “Pollo o manzo?” Anche se sono l’unico cliente lì dentro, e il mio è l’unico ordine con cui destreggiarsi, mi viene chiesto di ripetere la mia scelta di proteina.

 

Io: “Pollo.”

 

Lui: “Riso e fagioli?”

 

Per essere corretti, neanche io non so il suo nome o il suo ordine (presumendo che anche lui mangi lì). Per essere corretti, sono sicuro che non è cipolle tritate e carnitas alla griglia per il buon vivere. Ho passato un’estate sgrattando fagioli fritti due volte, non mangiati, dai piatti in un ristorante Messicano a Phoenix. Un ristorante all’aperto. A Phonenix. In estate. Quindi, sebbene non fingerò di capire l’intensità/la portata della sua esperienza, è come se sentissi di poterlo immaginare. Almeno un pochino.

 

O forse no. Forse sono solo un coglione viziato convinto di dover avere dei diritti. Forse il tizio sta passando un brutto decennio. Forse il suo cane è scappato e non ha mai fatto ritorno. Forse ha bisogno di un pò di dolce comprensione. Forse potrei calmarmi con i giudizi e previsioni. Forse non dovrebbe importarmi che lui non riesca (e non riuscirà?) a ricordarsi del mio ordine.

 

Ma mi importa.

 

Comunque. Non sono venuto per il servizio. Vengo solo per le quesadillas. Che, con ogni probabilità, sono uguali dappertutto. Ma, tornando alla questione rituale come piace a me, è quella che ho mangiato per un numero sufficiente di volte per farmi diventare sentimentale al riguardo. Ripetendo i 90 minuti di guida fin lì avanti e indietro, l’odore del sapone delle mani in bagno, la ricevuta con l’inchiostro rosso sul retro che, se lo tocco prima che si asciughi, mi finisce sulle dita. Questo è il mio posto. Il mio locale. Il mio Cheers. Anche se nessuno sa o se ne frega di quale sia il mio nome/ordine. Questa (molto nella media) quesadilla è inserita nella mia storia a LA, questa città che ho amato ed odiato (quasi) nella stessa misura, un posto in cui vengo perché è “dove lavoro” e, ora che il lavoro mi porta via, sono eccitato di partire. Una città che non ho mai sentito come casa, anche se era dove ho scelto di far stendere la mia testa (modo di dire per dire “dove ho scelto di vivere”).

 

Come un poeta disse, ‪#‎nonèilmioambientenonèlamiatribù.

 

Motivo per cui, alla vigilia della mia partenza definitiva, in procinto di iniziare un nuovo lavoro in una nuova città in un nuovo paese, preparandomi per una sfilza di esperienze che mi promettono cambiamento, crescita e spostamento e tutte le cose che generalmente mi terrorizzavano ma che oggi riconosco e accetto come un dono e oro, è giusto fare l’ultimo viaggio verso il ristorante Messicano, per l’ultima volta, per l’ultima quesadilla di pollo su una tortilla di farina di grano. E onorando tutte quelle altre volte che sono venuto qui a godermi “la mia ultima quesadilla”. Non perché stessi partendo ma perché stavo andando a casa a suicidarmi.

 

Di tutti i miei amici più cari, la Depressione è quella che conosco da più tempo.

 

A 10 anni ci conoscevamo bene. Era lì per il mio primo tentativo, a 15, per il mio secondo, durante il mio primo anno a Princeton, e per molteplici prove generali e i testa a testa che sono seguiti. Era lì recentemente tipo quattro anni fa, seduta in prima fila per quello che era in un certo senso il mio più grande collasso fin dai tempi del college. Quando tutto quello che volevo era morire. Quando la Depressione mi ha convinto profondamente, ad un livello cellulare – che Mi Sarei Sentito Sempre Così e che Non c’erano Altre Versione di Me/della Vita Da Offrirmi.

 

Ma questo era prima che realizzassi che Depressione è una bugiarda.

 

Questo era prima della meditazione giornaliera, la preghiera, le asserzioni. Prima della terapia, del lavoro degli uomini, il passaggio dall’isolamento alla comunità. Prima dell’espressione di sé stessi attraverso la scrittura (privatamente, professionalmente) e il coming out (pubblicamente). Prima del delicato (e a volte non così delicato) lasciar andare di gente, abitudini, e sistemi di credenze che mi hanno messo a terra fisicamente, abbassato la mia frequenza, e derubato di un buon sonno. Prima della graduale conclusione che non sono venuto al mondo programmato all’autodistruzione. (Quell’upgrade/virus è venuto dopo, grazie ad influenze esterne). Prima di capire (ricordarmi?) che il mio diritto di nascita è la felicità. Ma la felicità non verrà solo chiamandola. Devo invitarla. Con gentilezza. Creando una connessione, una fiducia, nel tempo.

 

Ma sto divagando. Dov’ero rimasto? Ah già. Le quesadilla di pollo.

 

Nel corso degli anni, in una manciata di giornate nere, vorrei decidere che il mio pasto finale sia il mio preferito e una volta finito, potrei fare la mia uscita da questa terra. Perché non potrei immaginare una sensazione migliore. Perché non potrei immaginare uno stato di esistenza diverso e vastamente migliore.

 

Il ché, ovviamente, rappresenta un colossale fallimento della mia immaginazione.

 

Quello era un altro strumento nella cinta degli attrezzi della Depressione: i limiti di quello che potrei e non potrei immaginare.

 

L’uomo che ero non avrebbe mai potuto immaginare quello che sono ora, che si muove (più) consciamente e (più) premurosamente nel mondo, (più) attento alla gente, le abitudini e il sistema di credenze che porta alla pace e agli obiettivi nella mia vita su una base giornaliera. Un uomo che parte (scappa) da Los Angeles con una vasta varietà di cose a cui puntare.

 

L’uomo che ero non avrebbe mai creduto che questo sarebbe stato possibile. Ma lo è stato. E lo è.

 

E per festeggiare, sto curando me stesso con l’ultima quesadilla al pollo su una tortilla di farina di grano prima di andare. Perché me la sono fottutamente guadagnata. E se lo dico io.

 

Parcheggio l’auto nel parcheggio sotteraneo, timbro il biglietto, entro nel ristorante. Passo davanti al ragazzo dietro al bancone ed entro nel bagno per lavarmi le mani. Esco fuori, prendo il mio vassoio e mi avvicino al bancone, e capisco che per la prima volta in questi 50 anni in un secolo [idioma per sottolineare come sia “un sacco di tempo”] che frequento questa catena, che questa è potenzialmente e molto probabilmente l’ultima visita a questo buco-nel-muro al centro commerciale, questo ristorante totalmente non eccezionale in cui ho speso anni superficialmente e non pochi soldi di benzina per arrivare, passando da un isolato all’altro, e realizzo per la prima volta che il tizio dietro al bancone aveva già una tortilla a scaldare sul fornello per me. Di farina di grano.

 

Sguardo abbassato, la spolverizza di formaggio, dicendo a me o a se stesso o ad entrambi, “Quesadilla di pollo”.

 

E’ stata un’affermazione. Non una domanda.

 

Ho detto, “Si. Per favore.”

 

E “Grazie.

2 Risposte a “Farina di Grano o Integrale”

  1. Sto piangendo, sto piangendo parecchio e penso:
    ma quanto ha dovuto patire prima di essere salvato?
    ma quanto è fragile e sensibile un uomo che si mette a nudo come fa lui?
    Penso a quelli che seguono gli stupidi gossip (quasi sempre inventati) e mi inorgoglisco.
    Si’ perchè di quel mondo finto è l’unico a essere vero , l’unico che può migliorarci (se lo vogliamo
    Continuo a piangere e pregare che a questo uomo raro, sia riservata la vita serena e piena d’amore che gli spetta di diritto!

    1. Grazie per aver lasciato il tuo commento. E’ importante per noi, per la comunità. Tra l’altro questa è una delle nostre note preferite. 🥰💘
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      “ᴀ ɢʀᴇᴀᴛ ʙᴏᴏᴋ ᴘʀᴏᴠɪᴅᴇs ᴇsᴄᴀᴘɪsᴍ ғᴏʀ ᴍᴇ. ᴛʜᴇ ᴀʀᴛɪsᴛʀʏ ᴀɴᴅ ᴛʜᴇ ᴄʀᴇᴀᴛɪᴠɪᴛʏ ɪɴ ᴀ sᴛᴏʀʏ ᴀʀᴇ ʙᴇᴛᴛᴇʀ ᴛʜᴀɴ ᴀɴʏ ᴅʀᴜɢs” – ᴡᴇɴᴛᴡᴏʀᴛʜ ᴍɪʟʟᴇʀ
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