In allenamento

 

“La vita non è una prova costume.”

Eh già. Il solito vecchio ritornello.

Con tutto il dovuto rispetto, fan-lo a questa stupidaggine.

Comprendo l’opinione. “Viviamo una volta sola”. Ecc. Lo trovo assolutamente inutile.

Sono un perfezionista con la “P” maiuscola. Nel vero senso della parola. Quella voce nella mia testa (alta, ossessiva) insiste che io faccia le cose “bene”. Fallo “bene”. (Qualunque cosa “essa” sia.)

E mi sgrida quando non lo faccio.

Non è una passeggiata. Ed è sempre stato così da che io ricordi.

Sono cresciuto in una serie di culture e ambienti con un’idea comune, non sempre sottointesa di: “Fallo bene o non farlo affatto.” Perché? Perché sennò verrai punito. Deriso. Umiliato. Bocciato.

Quando avevo 10 anni ho ripetuto una storiella che ho sentito a scuola ad un adulto con una significativa dose di autorità nel mio universo. Ho rovinato il finale. Non ho solo fallito nel far ridere, mi è stato consigliato di “star lontano dal genere comico.” Da quel giorno raccontare barzellette mi stressa. Appena sono vicino alla battuta finale sento il mio cuore accelerare, salire di tono la mia voce finché non mi sembra di avere 10 anni (di nuovo). Preoccupato che non cadrò in maniera impeccabile (di nuovo).

“Fallo bene o non farlo affatto.”

Non molto tempo fa stavo parlando di hobby con una ragazza che mi disse di amare disegnare. Ma che non disegnava più. Le ho chiesto perché no. Le mi ha risposto, “Perché non ero granché brava.” Questo mi ha rattristato. C’era qualcuno che sapeva cosa sapeva renderla felice (non è per tutti così), sapeva cosa la rallegrava nei giorni di pioggia, ma non lo faceva perché era convinta (forse le era stato detto?) che non era brava abbastanza.

“La vita non è una prova costume.”

“Ansia da prestazione.” “Paura da palcoscenico.” Queste frasi sono di solito utilizzate per descrivere scenari davvero specifici, ma credo che possiamo soffrire di qualcosa di simile in quasi ogni contesto che coinvolge un pubblico. Che sia una persona, cento, o solo noi stessi. La pressione di farlo “bene” – e credere di avere solo una possibilità – può essere paralizzante. L’esame. Il colloquio. La telefonata. Il lavoro. La competizione. Il primo appuntamento. Il secondo appuntamento. Ecc.

Ci sono state volte in vita mia in cui ho evitato di partecipare alle feste perché non sopportavo cosa arrivava dopo – andare a casa, infilarsi nel letto, e ripensare a tutto quello che avevo sbagliato. “Perché ho detto quella cosa? Che mi è passato per la testa?” Rigirandomi per ore, ossessionato dall’unica occasione che ho avuto per fare “bene” ma non ci sono riuscito. Meglio evitare le feste del tutto.

“La vita non è una prova costume.”

No. Mi dispiace. Mi rifiuto – e continuo a rifiutarmi, più spesso del necessario – l’idea che la mia vita sia solo LA PERFORMANCE DI UNA NOTTE. Insieme alla paura e all’ansia che – per me – vengono di conseguenza.

Invece farò le prove. Che sarebbe come dire, allenarsi.

Il mio dizionario online dice “allenarsi” è “ripetere un esercizio o un’attività o capacità fino ad acquisire o mantenere un’abilità.”

Proprio ora, per esempio, mi sto allenando a  mettere delle frasi insieme sul mio laptop.

Stasera, fuori a cena con un amico, mi allenerò ad essere un buon orecchio. Articolando i miei pensieri e i miei sentimenti. Ordinando qualcosa di diverso dal solito. Ad un livello più elementare (che potrebbe essere necessario se mi sento stanco o nervoso), posso allenarmi a star seduto dritto. Portando la mia forchetta alla bocca. Se ho bisogno di posarla giù più avanti (che anche stavolta potrebbe essere necessario), posso allenarmi a sentire i miei piedi sul pavimento. Inspirando ed espirando. Sbattendo le palpebre.

Finché mi sto “allenando” e non sto “eseguendo”, posso perdonare me stesso se non faccio “bene.” (Qualunque cosa “essa” sia.) Se non sono all’altezza di quello che la mia voce interiore (alta, ossessiva) definisce “perfetto.” posso lavorare per creare – consciamente – un più ampio e flessibile spazio emozionale per me stesso in cui incidenti, nervosismi, distrazioni, farfugliamenti, insicurezze, passi falsi, casini, e show mediocri non sono solo permessi ma anche, potenzialmente, utili. “E’ ok. Mi sto allenando. Questo è il mondo in cui imparo/cresco/divento elastico. Con un po’ di fortuna ci proverò di nuovo.”

E vi dirò una cosa – ho scoperto un pizzico di libertà nel fallire. Se non riesco a farlo “bene.”

Una volta ho ricoperto un ruolo amministrativo in un circolo di uomini che prevedeva di creare email di gruppo a cadenza regolare. Una settimana ho lanciato la sfida a me stesso di includere degli errori ortografici – intenzionalmente – in ogni email che ho inviato. Per allenarmi ad accettare l’imperfezione. Quell’errore? OHMIODIO. Era tutto nel non inviare immediatamente una email a seguito per chiedere scusa dell’errore. Ma alla fine della settimana gli errori erano continui. Egregi. Sotto gli oocchi di tutti. E mi piaceva. (Un pizzico.) Da qualche parte dentro di me c’era un bambino che credeva ancora che una parola non pronunciata correttamente fosse La Fine Del Mondo. Il me adulto era sollevato nel confermare che No, Non Lo Era.

E’ importante sentire di avere l’opportunità di farcela. E’ anche importante sentire di avere il permesso di poter fallire.

Entrambi richiedono allenamento.

Andiamo in palestra per fare “esercizi” e in palestra yoga per allenarsi con le pose. Il bar vicino casa è la mia palestra. L’ufficio postale la mia palestra yoga. Allo stesso modo l’aeroporto, l’autostrada e il supermercato. Questi sono posti in cui vado a “ripetere un esercizio o un’attività o capacità fino ad acquisire o mantenere un’abilità.” Aspettare in coda? Mi sto allenando ad esser paziente. Un tizio mi taglia la strada nel traffico? Mi sto allenando a non mostrargli il terzo dito. Recitare una scena a lavoro? Mi sto allenando a dire le mie battute nell’ordine giusto ed essere presente per il mio partner di scena. Qualcosa non và nel modo che “avevo previsto”? Non và “bene”? E’ ok. Mi sto allenando. La pressione non esiste. O almeno, diminuita. (Eccetto quando le cineprese girano, registrando ogni movimento. In quel caso sì, sembra meno una “prova” e più una “performance”. Meno “allenamento” e più tipo “permanente”. Ma posso allenarmi ad accettarlo.)

In più, decisamente, potrei scegliere/ricordare, che posso estendere questa prospettiva agli altri. “Si sta allenando a non dominare la conversazione.” “Lei si sta allenando ad essere un alleato premuroso.” Ecc.

Non sto parlando di trovare scuse a pessimi comportamenti o andare in giro per il mondo senza confini salutari. Sto parlando di avere un più generoso e tollerante spazio per la gente. Ricordando a me stesso di quanto insisto che la famiglia, gli amici e i colleghi debbano essere (perfetti) e non lo sono (imperfetti). Ed è ok. Sembra corretto concedergli la stessa grazia e permesso fallire senza punizioni che vorrei – voglio – per me stesso. Perché si stanno allenando. Tutti lo stiamo facendo.

Il perdono richiede allenamento. E’ un allenamento. Anche la gentilezza. La gentilezza verso noi stessi e gli altri.

Da bambini, molti di noi hanno avuto l’esperienza di andare al mondo (o chi ne fa le veci) con l’oro nelle nostre mani dicendo “Ecco. Questo è il mio oro.” E il mondo ha detto, “Non è oro. Questa è m**da.” Dopo crescendo, diventando adulti, e quando il mondo (o chi ne fa le veci) è venuto da noi con l’oro tra le mani abbiamo detto, “Non è oro. Questa è m**da.”

Non voglio essere uno di questi adulti. (Lo è qualcuno? Davvero?)

All’improvviso sto realizzando di non avere idea di come chiudere questo pezzo. Non sono sicuro di stare cadendo in maniera impeccabile (di nuovo). Ed è ok. Mi perdono. Mi sto allenando.

Traduzione by Kiara

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