Inspiration Equations (Il Giusto Peso dell’Ispirazione)

Il Giusto Peso dell’Ispirazione.

Traduzione a cura di Lucia Salvato.


 

Fonte: Wentworth Miller 

Foto: NEW YORK, NY – JANUARY 21: Wentworth Miller visits “Extra” at their New York studios at H&M in Times Square on January 21, 2016 in New York City. (Photo by D Dipasupil/Getty Images for Extra).

Graphic: Wentworth Miller Italia  

 


Sto fissando la mia propria immagine, sul punto di abbozzarci su la mia firma.

 

Puoi scrivere qualcosa che mi ispiri? Per favore?”

 

Alzo lo sguardo verso i suoi occhi, mi accorgo di quanto questa domanda sia stata posta con onestà e purezza d’intenti. Vorrebbe che scrivessi qualcosa che ispiri. Per favore. (Non che sia la prima volta che me lo sento dire). Ritorno a guardare la mia foto, il mio viso patinato e ritoccato. E penso a tre cose distinte. Tutte insieme. Mi fermo. Penso. Scrivo. “Sii il tuo migliore amico”.

 

Primo pensiero: “Ci credo”. Sii il Tuo Migliore Amico. È tutto ciò che abbiamo. (Cos’altro resta? Se non hai quel tassello al suo posto, se non sei il tuo migliore amico, cosa ti rimane? Non molto. Secondo Me).

 

Secondo pensiero: “Nemmeno ti conosco”. Te. La persona che mi sta chiedendo di scrivere qualcosa che possa ispirarla. Come ci si può aspettare che io crei, nell’arco di 10 secondi (è tutto il tempo che abbiamo), qualcosa che tu – tu personalmente – possa trovare personalmente di ispirazione? Impossibile.

 

Terzo pensiero: “No. Noooo. No no no no no no no”. Questo non è quello che volevo. Non doveva andare così.

 

Non voglio far parte del giro di Quelli che Ispirano la Gente. Ed è un giro di affari. (O può esserlo). Un sacco di gente là fuori sta facendo una barca di soldi Scrivendo Libri. Pubblicando Video. Influenzando gli Altri.

 

Le cose che mi tirano fuori dal letto la mattina: la Speranza, la rabbia, le aspettative, le vendite dei garage, i cinguettii degli uccelli (tacete, uccelli), pensare al caffè e alla pancetta, a un passo di scrittura che ha catturato la mia attenzione… “Ispirare le persone?” Non è sulla mia lista.

 

Puoi scrivere qualcosa che mi ispiri? Per favore?”

 

Cosa intendono le persone quando lo chiedono? Cosa intenderei quando (se) l’avessi chiesto io? “Fammi sentire come se stessi facendo qualcosa di importante”. Questo è ciò che intenderei. Oppure, in poche parole, “Fammi sentire qualcosa”. Fammi provare dei sentimenti. (Il giusto tipo di sentimenti). Per favore.

 

No. Non voglio questa responsabilità. Ed è una responsabilità. (O può diventarlo).

Ispiro le persone. È questo che mi tira giù dal letto la mattina”.

 

Se qualcuno mi avesse detto queste parole Nella Vita Reale, avrei cercato una via di fuga. Avrei cliccato su “Non seguire più”. Non so – mi sembra ridicolo. Forse è il loro lato vanitoso (“Sono Colui Che Ispira”). Forse è nella loro agenda (“Lascerò la mia impronta su di te”). Forse è del genere il-serpente-che-si-mangia-la-coda (“Ispirarti mi ispira per ispirare te che ispiri me…”). Per me è proprio un …no. No.

 

(E se ci FOSSE una parte di me che ha vibrato o sta vibrando su questa frequenza…Va bene, ti vedo. Ti capisco, mio ego. Non getterò vergogna su di te/non ti sgriderò/non ti metterò a tacere. Ma continuerò ad allentare la tua presa sulla mia vita).

 

Capisco (o penso di capire) perché qualcuno mi chiede di scrivere qualcosa che lo ispiri. È perché ho già scritto qualcosa che lo ha ispirato. In precedenza.

 

Ciò mi commuove. Non lo prendo alla leggera.

 

E (ed è una “e” inclusiva) non è la ragione per cui l’ho scritto. Qualunque cosa abbiano trovato di ispirazione, l’ho scritto per me. Perché avevo bisogno di scriverlo. Perché mi faceva provare dei sentimenti. Scriverlo. Dopo l’ho condiviso perché avevo bisogno di condividerlo. Perché sentivo che valeva la pena condividerlo. Che io valgo la pena di essere condiviso. Che c’è valore nell’auto-espressione. E se anche un’altra persona ci trova valore… ottimo.

 

Ma questa non è la ragione per cui l’ho scritto.

 

Quindi, che mi venga chiesto adesso, nell’arco di 10 secondi (è tutto il tempo che abbiamo) di scrivere “qualcosa che ispiri”, è come chiedermi di parlare Mandarino. (“Ni hao” e “xiè xie.” È tutto ciò che so).

 

Ho scritto in questo spazio molte (molte) volte che se vi piace ciò che viene offerto qui, se trovate qualcosa di utile per voi…fantastico. Se non succede, va bene lo stesso. Passate oltre.

 

Questa è una mia capacità che riconosco e apprezzo – esaminare e scegliere. In generale, sono in grado di accogliere informazioni, di selezionare le parti che mi interessano, di appropriarmi di esse e di scartare il resto. Dopodiché proseguo il mio cammino. Questo è ciò che vorrei che chiunque visiti questa pagina facesse con ciò che trova qui. (Confido che molti hanno fatto/stanno facendo esattamente questo).

 

Se FOSSI nel giro d’affari dell’Ispirare la Gente, avrei un solo cliente: Me. Il mio lavoro è di ispirare me stesso. Di essere la mia fonte di generazione-di-ispirazione. Per non dover esternalizzare, costantemente, verso qualcun altro o qualcos’altro, la responsabilità di farmi percepire dei sentimenti.

 

Niente di male nel mettere su un brano musicale che mi ispiri a scrivere. Nel fermarsi a guardare un tramonto che ispira in me sentimenti dolceamari di desiderio e perdita e (sana) tristezza. Ma cosa succede quando o se improvvisamente mi ritrovo senza la mia musica? Significherebbe non scrivere? Se non c’è un tramonto disponibile per me, non sono più in grado di provare sentimenti dolceamari?

 

Non amo questo pensiero. Non amo il pensiero di essere condizionato – di dipendere – in questo modo.

 

C’è una buona notizia: qualcosa che mi “ispira”? È già in me. Non è il tramonto. (Ovviamente). Il tramonto? È solo un tramonto. È una causa scatenante. È un punto di riferimento. Non è, in sé e per sé, dolceamaro. Non genera, in sé e per sé, sentimenti. Di qualunque tipo. L’ho fatto. Gli ho dato il suo peso. A tutto ciò. Il tramonto stava facendo il suo lavoro, stava badando ai fatti suoi, finche io non gli ho assegnato un significato. Un valore specifico. Il che ha suscitato in me sentimenti che ho trovato d’ispirazione.

 

Altre buone notizie: se l’ho fatto una volta posso farlo di nuovo. Questa è davvero una notizia incredibile. Rendermi conto che io sono una macchina produttrice di significati. Che porto questo macchinario dentro di me. Che ovunque io vada, rieccomi – ad assegnare significati. Ad assegnare valori. A generare ispirazione. A generare sentimenti.

 

È come un super-potere.

 

In qualsiasi momento, posso fare una passeggiata intorno all’isolato e scegliere un albero – qualsiasi albero – e decidere che mi ricorda un Sabato a Prospect Park, a Brooklyn, quando ero bambino… Un sole splendente, io sulla bici, in cerca di guai, col vento tra i capelli e sei quarti di dollaro in tasca (abbastanza per una fetta di pizza e una soda), l’intera giornata davanti… Questo è un bel ricordo. Mi ispira. Mi fa percepire sentimenti mentre mi fermo sul marciapiedi, guardando questo albero qualunque scelto-a-caso. Da ora in poi tra quell’albero e me, ci sarà un “qualcosa” in corso. Quando rivedrò quell’albero esso attiverà un ricordo. Di Brooklyn. E ne sarò commosso. Ma prima di fare quel giro dell’isolato, quell’albero era solo un albero. Niente che possa essere particolarmente d’ispirazione. (Non per me comunque).

 

Questo non è “come” un super-potere. Questo È un super-potere.

 

Questa è la parte interessante: l’ho sempre avuto. Questo super-potere. Quando ero piccolo (più giovane che nel mio ricordo di me sulla bici), trovai un bel (Secondo Me) pomello verde che decisi sarebbe stato uno Smeraldo Gigante e anche un Talismano Magico e un Amuleto Contro il Male. Ho attribuito a questo pezzo di vetro intagliato (probabilmente di nessun valore) una storia/una personalità. Quel pomello significava qualcosa per me. Guardarlo mi faceva percepire sentimenti. Quando ero piccolo, riuscivo ad intrattenermi per ore e ore con non molto (chiaramente). Ero una macchina imperfetta/insignificante produttrice di significati, nell’ambito del generare ispirazione in ogni momento e ovunque usando qualunque cosa avessi a mia disposizione. Creare Qualcosa dal Nulla. Per tutto il giorno. E di notte.

 

Se avessi ancora quel pomello (non ce l’ho, purtroppo), lo avrei probabilmente disposto accanto al mio portatile in questo momento, insieme alle altre cianfrusaglie che ho raccolto attorno a me, nel tempo, per ammirarle e riflettere, nel mentre, su di me. Molti di noi hanno quell’angolino di mondo che consideriamo il nostro “nido”. Qualche piccola sacca (uno spazio) ricoperta di oggetti accuratamente selezionati che abbiamo deciso sono significativi per noi. Foto e cimeli, simboli e gingilli, posacenere e oggetti d’arte… qualsiasi cosa. In questo spazio (dedicato), tra oggetti che ci ispirano/ci aprono all’amore, alla gratitudine, al desiderio, all’orgoglio, al culto ecc.., noi percepiamo sentimenti. Ci permettiamo di percepire sentimenti. Possiamo sentirci più “radicati” in questo spazio, più “noi stessi”. Circondati dalle cose che amiamo. Che ci fanno riflettere su noi stessi.

 

Poi dobbiamo lasciare quel nido verso il mondo, dove saper provare sentimenti può essere controproducente. Può diventare complicato. Anche pericoloso. Quindi ci armiamo e ci irrigidiamo. Percepiamo meno. Perché siamo in pubblico. Di fronte agli altri. A casa, di sicuro – piangeremo guardando spot pubblicitari. Le lacrime arrivano facilmente e va bene. Provare sentimenti. Al lavoro, piangeremo solo quando e se qualcosa va terribilmente storto. Dopo ce ne vergogniamo. Preoccupati di cosa penseranno il nostro capo e i nostri colleghi.

 

Fortunatamente per me, quando piango al lavoro ”sto lavorando”.

 

Come attore, devo andare incontro ai sentimenti. A tutti i tipi di sentimenti. Sentimenti dai quali le altre persone trascorrono la vita fuggendo. Ma questa mia capacità – questa mia inclinazione – non si è manifestata dall’oggi al domani. Ci sono voluti anni di pratica e allenamento per “aprirmi”. Per arrivare a un punto in cui ho avuto accesso ai miei sentimenti, in cui potevo manifestarli a richiesta a lavoro. Per sentirmi come se fossi nel mio nido, a casa (più o meno), ma in pubblico. Di fronte agli altri.

 

Come attore, non si tratta solo di generare ispirazione cosicché io possa provare sentimenti o magari sensazioni approssimative. Si tratta del mio lavoro. E ci sono diverse tecniche a mia disposizione. Quali impieghi e quando dipende dal ruolo, dal mio umore, dal momento. Per alcune scene posso guardarmi dentro, posso pensare a una situazione parallela nella mia vita reale. “Questo momento in cui il mio personaggio sta cercando di ottenere qualcosa che non può avere, mi ricorda me nel momento in cui… Cosa provavo? Com’era?” Ecc… Frugherò nei miei 46 anni, troverò un ricordo che mi informi del momento, che mi fornisca profondità e specificità emotiva. “Realismo”.

 

Altre volte sceglierò di guardarmi intorno. Uno dei miei insegnanti di recitazione era solito dire “Tutto quello di cui hai bisogno – ogni tipo di emozione – è a tua disposizione in ogni momento. Devi solo essere aperto ad essa”. Questo significa che una volta imparato a rimuovere l’armatura che indossiamo quando non siamo al sicuro nei nostri nidi, a comando, possiamo accedere a qualunque emozione richiesta. Se sono abbastanza “aperto” e “disponibile”, mentre mi dirigo in auto a un’audizione in cui la scena richiede un totale esaurimento nervoso, mi fermo al semaforo, vedo un senzatetto che trascina un carrello… e trovo tutto ciò di cui ho bisogno. Permetto a quell’uomo di spezzarmi il cuore e utilizzerò questa sensazione nella scena che sto per girare.

 

C’è qualcosa di inevitabilmente cannibalistico in ciò che ho appena descritto. Sto usando quell’uomo (o la mia percezione di quell’uomo, che potrebbe non essere un senzatetto) per riempire il mio serbatoio, e arrivare dove ho bisogno di arrivare come attore. E (ed è una “e” inclusiva) è così che deve andare. La vita che ispira l’arte che ispira la vita. Ecc… Uso ciò che è disponibile. Esprimo ciò vedo intorno a me. Le storie che racconto sono bugie e ciò che fa credere alle bugie è la verità. “Michael Scofield” e le sue vicissitudini sono immaginari. Il mio lavoro è di attribuire a lui e alle sue vicende un peso, un significato cosicché lui e le sue vicende vengano percepite come non-immaginarie. Tirerò fuori quella verità da me stesso o da un senzatetto che ho visto sulla via per andare a lavoro. Basta che funzioni.

 

Un’altra abitudine che ho preso durante la mia formazione come attore: La capacità di crearmi un nido ovunque. Siamo nomadi. Gli attori. Andiamo dove c’è lavoro. Mi capita di creare spazi, ripetutamente, che mi toccano/mi commuovono/mi ispirano. Che mi fanno sentire al sicuro. Stabile. Come la mia roulotte al lavoro, per esempio, che potrebbe essere mia solo per poche ore e ancora odora del suo precedente occupante. Accendo l’incenso, brucio la salvia, che elimina gli odori estranei mentre mi ispira sensazioni di controllo. Di calma. Bruciare la salvia mi ricorda casa (dove la brucio ogni mattina). Mi ricorda del mio tempo trascorso facendo il lavoro con gli uomini (N.d.T. il Mankind Project). Ecc… E così questa roulotte (che non è mia) diventa “mia”.

 

Poi mi dirigo sul set. Oggi interpreto un venditore disoccupato, sfortunato, e la scena si svolge nel mio/suo ufficio. Anche questo è un nido (mio e del mio personaggio) che bisogna creare. Non sono mai stato su questo set, non ho mai passato del tempo in questo “ufficio” dalle pareti di cartone e senza soffitto. Oh – e gireremo la scena tra 20 minuti. (È così che funziona). Provo la sedia da ufficio del mio personaggio, quella che lo scenografo (che non ho mai visto) ha scelto per me. La detesto. Non va bene per il mio personaggio. Ma è troppo difficile cambiarla (e troppo tardi) quindi decido che anche il mio personaggio la detesta. Decido che l’ha comprata usata a una vendita di garage un Sabato mattina umido per 10 dollari (scontata di 15!) una settimana dopo che è stato licenziato. Ha un sedile duro che lo fa contorcere quando prende le chiamate (supponendo che ci siano chiamate da prendere) e le sue ginocchia sbattono contro il cassetto della scrivania quando si siede e si alza, quindi si siede e si alza con attenzione.

 

Niente di tutto questo è sulla sceneggiatura. La scena è di 2 pagine e io ho 10 battute, tutte riguardanti le graffette. Ma ora sono ispirato. Ho qualcosa da esprimere, qualcosa da fare. Ora lo spazio sembra più mio/del mio personaggio. Bene. Perché i miei 20 minuti sono scaduti. “Azione!”

 

Il mio lavoro richiede che io sia (o che lavoro per esserlo) una macchina imperfetta/insignificante produttrice di significati. Che io mi muova nel (mio) mondo creando/trovando ispirazione dove non ce n’è. O dove sembrava che ci fosse. Così posso provare sentimenti. Così c’è qualcosa da filmare. E le persone possono guardarlo da casa. E possono provare dei sentimenti. E il serpente si mangia la coda. È così che funziona.

 

È come un muscolo – un insieme di abilità – che può essere sviluppato (Secondo Me). O nel mio caso, ri-sviluppato, grazie agli anni di scuola di recitazione e poi di recitazione professionale. È un insieme di abilità con cui siamo nati (Secondo Me), che possedevamo in abbondanza da bambini, che poi abbiamo perso (alcuni di noi) crescendo. “Maturando”.

 

La mia pratica di generazione-di-ispirazione non è, naturalmente, limitata agli alberi e alle roulotte. C’è qualcosa che faccio – che ho fatto – per anni. Una ruota che ho messo in moto che (adesso) gira indipendentemente da dove mi trovo e da cosa sto facendo. Quando guardo l’orologio e vedo una certa combinazione di numeri che si verifica per certo 24 volte al giorno, pronuncio 36 parole a voce alta. Queste 36 parole significano qualcosa per me. Puntualmente mi fanno percepire sentimenti. E, nei giorni in cui mi capita (o “capita”) di vedere quella combinazione più volte, i sentimenti che provo sono (o vengono percepiti) amplificati.

 

Niente di tutto questo è reale. Cosa ho deciso che significhi quella combinazione? Qualcosa di immaginario. È qualcosa che ho inventato. E (ed è una “e” inclusiva) i sentimenti che ispira in me sono reali. Praticando la ripetizione, questo rituale privato (se non sono da solo pronuncio le parole in silenzio) ha accumulato energia e impeto. Indipendentemente da dove mi trovo e da cosa sto facendo, quella combinazione sull’orologio mi farà fermare nel mio percorso. Premerà il pulsante “pausa”. E mi riporterà verso me stesso.

 

La mia pratica di generazione di ispirazione non è, ovviamente, infallibile. Ci sono stati periodi in cui non volevo. Non potevo. Quando il mio super-potere mi ha abbandonato. Quando non avevo la volontà o l’energia di ispirare me stesso. Di assegnare un significato. A meno che non fosse negativo. (Per QUESTO sì che avevo la volontà e l’energia). Depresso, disperato, se qualcuno mi avesse messo davanti un pomello e avesse detto “È uno smeraldo!” lo avrei guardato come se fosse stato f-ttutamente fuori di testa…

 

A meno che non si trattava di uno dei miei piccoli. Uno dei bambini che ho la fortuna di avere nella mia vita. Si. Se uno di loro avesse sollevato un pezzo di vetro intagliato per mostrarmelo, girandolo con cautela in modo da catturare la luce, e avesse detto “Guarda…È magico”, allora sì, mi piacerebbe credere che avrei rimesso insieme/che avrei potuto rimettere insieme alcune delle mie vecchie finzioni. Che avrei fatto finta, per un momento, che ciò che teneva in mano non era Niente ma Qualcosa.

 

Non sto dicendo che questo mi avrebbe strappato via dalla mia depressione. No. Sarebbe da sciocchi. Sarebbe una pia illusione. Ma per prendere in prestito un concetto da “La ricerca del significato nell’uomo” di Viktor Frankl (“Se hai intenzione di rubare, ruba dal migliore” diceva anche il mio insegnante di recitazione), se tu mi avessi detto “Wentworth, scegli – tu o uno dei tuoi piccoli. Chi sarà depresso? Chi porterà quel peso?” non avrei esitato. Il pensiero di dover fare quella scelta – totalmente immaginaria, non basata sulla realtà – mi ispira. Mi avrebbe ispirato. Il pensiero di dover scegliere chi avrebbe o chi avrebbe potuto portare quel peso paralizzante – io o uno dei miei piccoli – sapendo quale scelta avrei fatto, istantaneamente e immediatamente, anche prima che la domanda fosse uscita completamente dalla tua bocca, più e più volte…”Lo farò io, lo porterò io, continuerò a farlo e a portarlo cosicché non debbano farlo loro…”. Si. Questo mi fa provare sentimenti. Questo mi avrebbe ispirato. A superare un’altra giornata. A compiere un altro passo.

 

Come ho detto…finzione. È uno scenario immaginario a cui ho assegnato un significato. Ma io uso ciò che è disponibile. Sempre e ovunque. Creare Qualcosa dal Nulla. Per tutto il giorno e di notte. Basta che funzioni.

 

Quanto sopra non è la “verità”. È la mia verità. O meglio, la mia verità del momento. Dalla quale mi riservo lo spazio/il permesso di evolvermi ogni momento.